La conversione dei popoli nordici al cristianesimo fu un processo lungo e articolato che, per quanto circoscrivibile in un arco cronologico di circa tre secoli (IX-XI), si svolse in ciascun paese in tempi e con vicissitudini differenti. Pur tenendo conto di questa diversità di fondo, all’interno di questo fenomeno è comunque possibile individuare alcuni elementi comuni, a cominciare dallo stretto legame instauratosi sin dall’inizio tra i missionari franchi e anglosassoni, da un lato, e quella che potremmo definire la “classe dirigente” dell’epoca (re, jarlar, magnati e capi locali), dall’altro.
Difatti, sebbene nella storia della cristianizzazione della Scandinavia non manchino episodi di conversioni individuali e “dal basso verso l’alto”, determinante fu soprattutto l’azione di quei capi o signori che, una volta abbracciata la nuova fede (non di rado all’estero), si impegnarono affinché essa fosse adottata anche dal resto della popolazione. A tale scopo i re e i capi seppero sfruttare a proprio vantaggio un istituto dell’antica società nordica, il þing, l’assemblea degli uomini liberi, che riuniva in sé il potere legislativo e giudiziario (ma non quello esecutivo) e le cui decisioni erano vincolanti per tutti coloro che vivevano nell’area di competenza del þing stesso.
Fu infatti nei þing più importanti di Danimarca, Svezia e Norvegia che i sovrani, grazie soprattutto alla forte pressione esercitata dai loro seguiti armati, imposero la nuova religione ai loro sudditi, peraltro non senza opposizioni e resistenze. Da qui il carattere essenzialmente giuridico della conversione, che lungi dall’essere una scelta soltanto privata e personale coinvolse l’intero corpo sociale, facendo dell’appartenenza alla religione cristiana la prima delle leggi fondamentali su cui si vennero a edificare le nascenti monarchie scandinave.
La natura giuridica della conversione emerge anche nel caso dell’Islanda, dove il cristianesimo fu accettato ufficialmente nell’Alþing (l’assemblea generale annuale dell’isola) dell’anno 999/1000, episodio narrato in particolare dalla Íslendingabók (Libro degli islandesi) di Ari Þorgilsson (1122/1133 circa), dalla Kristni Saga (Storia della cristianizzazione) e dalla celebre Brennu-Njáls saga (Storia di Njáll del rogo), entrambe del XIII secolo.
Sebbene storici e archeologi siano oggi propensi a retrodatare la scoperta dell’Islanda di qualche decennio rispetto alla data convenzionale dell’860, l’inizio della cosiddetta “Età degli insediamenti” (Landnámsöld) è solitamente fissata all’anno 870, secondo la Íslendingabók, o all’874, secondo la Landnámabók (Libro delle colonizzazioni, dell’inizio del XII secolo). La colonizzazione dell’isola non fu il risultato di un progetto pianificato, bensì la conseguenza dell’emigrazione di singoli, famiglie o gruppi di famiglie: stando alla versione delle saghe islandesi, su cui peraltro persistono molti dubbi, la maggior parte dei coloni sarebbero stati norvegesi in fuga dal loro paese dopo l’unificazione del regno compiuta dal re Haraldr hárfagri (“Bellachioma”, re dall’872 al 930), ma le fonti evidenziano anche la presenza di coloni provenienti dalla Svezia e dalle isole britanniche.
Questa fase si considera sostanzialmente conclusa nel 930 con l’istituzione dell’Alþing, l’assemblea generale, che si teneva ogni anno a giugno presso la località detta Þingvellir (i “Campi dell’assemblea”), nell’Islanda sudoccidentale: essa era presieduta dal lögmaðr o “uomo delle leggi”, un esperto di diritto che veniva eletto ogni tre anni e aveva, tra i suoi compiti, quello di recitare a memoria l’intero corpus legale (un compito necessario in una società orale come quella islandese di età pagana). In questi incontri un ruolo di primo piano era svolto dai magnati e capi locali (goðar, sing. goði), che si recavano al þing con i propri seguiti: oltre ad essere grandi proprietari terrieri, i goðar erano anche leader politici e religiosi, non di rado responsabili del culto presso i templi costruiti sulle loro terre.
Come per la scoperta dell’Islanda, anche i primi contatti degli islandesi con il cristianesimo devono essere retrodatati rispetto dalla data “ufficiale” del 1000: una parte dei coloni, come detto, proveniva infatti dalle isole britanniche, dove il cristianesimo era già stato adottato da secoli, e molti di loro sono esplicitamente presentati nelle fonti come cristiani. Ciononostante, il paganesimo era rimasto predominante sull’isola fino all’ultimo ventennio del X secolo, allorché fecero la loro comparsa i primi missionari.
Uno di loro fu l’islandese Þorvaldr Koðránsson detto inn víðförli (“il viaggiatore-in-terre-lontane”), che durante un viaggio sul continente era stato battezzato dal vescovo sassone Friðrekr. Rientrato in patria nel 981, Þorvaldr fu raggiunto da Friðrekr con il quale si mise a predicare il Vangelo in tutta l’isola facendo i primi proseliti, tra cui il padre e tutta la famiglia di Þorvaldr. Insieme a Friðrekr, Þorvaldr si spostò poi da un distretto all’altro raggiungendo infine l’Alþing, dove il vescovo predicò la nuova fede.
Qui, tuttavia, i due furono accolti con disprezzo e persino denigrati con una strofa d’infamia (níðvísa), in cui si alludeva a una relazione omosessuale tra Þorvaldr e Friðrekr: ciò provocò la violenta reazione di Þorvaldr, che uccise due uomini. Infine, dopo altri scontri con i pagani, nel 986 Friðrekr lasciò l’Islanda e tornò in Sassonia, mentre Þorvaldr si imbarcò alla volta dell’Europa orientale, dove morì pochi anni dopo.
Successivi tentativi di conversione furono poi intrapresi per volere del re norvegese Óláfr Tryggvason (995-999/1000), che nel 995/996 inviò sull’isola l’islandese Stefnir Þorgilsson. Anche questa iniziativa, narrata nella Kristni saga, fu però accolta con ostilità e provocò la reazione di Stefnir che distrusse templi e idoli pagani per poi rifugiarsi a Kjalarnes. In risposta, l’Alþing promulgò una legge contro i cristiani, che venivano ora considerati un’onta per la famiglia (frændaskömm) e potevano perciò essere denunciati dai loro stessi parenti. In base a tale legge, Stefnir fu messo al bando e costretto a tornare in Norvegia.
Dato l’insuccesso della missione, Óláfr Tryggvason inviò allora il prete sassone Þangbrandr, che rimase in Islanda per due anni (997-999). Personaggio controverso, nelle saghe Þangbrandr è descritto come un predicatore zelante e buon studioso, ma anche violento e abile con le armi. Il sacerdote iniziò la sua predicazione nel sud, dove riuscì a convertire alcune importanti famiglie, ma la sua attività suscitò presto opposizioni: anche lui, come Þorvaldr, fu oggetto di versi di scherno e anche lui reagì uccidendo alcuni uomini, tra cui lo scaldo Þorvaldr inn veili (“il Sofferente”), che in una strofa lo aveva definito “effeminato bandito (o lupo) di Dio” (argr goðvargr). A causa di questi crimini, Þangbrandr fu accusato dinanzi all’Alþing e messo al bando, motivo per cui anche lui fu costretto a ritornare in Norvegia.
A questo punto, dicono le saghe, per ritorsione re Óláfr non solo proibì ai mercanti islandesi di accedere ai porti norvegesi finché fossero rimasti pagani, una misura economicamente penalizzante se si considera che la Norvegia era il principale partner commerciale dell’Islanda, ma prese anche in ostaggio diversi islandesi – molti dei quali figli e parenti di importanti goðar – che a quel tempo vivevano in Norvegia, minacciando di ucciderli se i loro conterranei non avessero accettato di convertirsi.
Quando la notizia giunse in Islanda, una delegazione cristiana guidata dai goðar Hjalti Skeggjason e Gizurr inn hvíti (“il Bianco”) si recò in visita dal re, ottenendo la liberazione degli ostaggi in cambio della promessa che l’intera isola avrebbe accettato il cristianesimo, se fosse stato proposto in maniera saggia e non in modo violento da preti stranieri. Nel frattempo, però, la situazione in Islanda andava aggravandosi, con il paese spaccato in due e il rischio concreto di una guerra civile evitato solo grazie all’intervento di alcuni mediatori.
Ritornati in Islanda, Hjalti e Gizurr sottoposero la questione all’Alþing, dove in quel momento era lögmaðr Þorgeirr Þorkelsson: a lui – che, sebbene pagano, godeva della fiducia di entrambe le parti – toccò il delicato compito di decidere quale religione avrebbero dovuto professare gli islandesi. Secondo il racconto di Ari (Íslendingabók, cap. VII), dopo aver trascorso un giorno e una notte in meditazione, da solo, completamente avvolto dal suo mantello, Þorgeirr pronunciò un discorso davanti all’assemblea: nel paese, disse, ci doveva essere una sola legge e una sola fede, perché dividere la legge avrebbe significato distruggere la pace.
A queste parole, entrambe le parti in causa assentirono, giurando di rispettare qualsiasi decisione egli avrebbe preso. Ottenuta questa garanzia, il lögmaðr proclamò la nuova legge: gli islandesi dovevano essere cristiani, e coloro che non erano stati ancora battezzati dovevano ricevere il battesimo; le antiche usanze pagane, come l’esposizione dei neonati e il consumo di carne di cavallo, potevano continuare a essere praticate purché in segreto, pena messa al bando. Ma già pochi anni dopo, conclude Ari, tutte le pratiche pagane furono definitivamente abolite.
Attraverso questo compromesso, nell’estate del 999/1000 l’Islanda adottò dunque il cristianesimo, scongiurando l’insorgere di un conflitto religioso che avrebbe scosso dalle fondamenta l’intera società islandese. Nell’immediato, invece, il cambiamento di religione non causò cambiamenti nella struttura sociale dell’Islanda: i goðar mantennero infatti il loro ruolo religioso, costruendo ora chiese (invece che templi) sulle loro proprietà e gestendole come chiese private. Non a caso fu un goði, Ísleifr Gizurarson (c. 1006-1080), il primo vescovo islandese, così come goðar furono i suoi successori.
Ísleifr, in particolare, stabilì la prima sede episcopale dell’isola nella sua fattoria a Skálholt, mentre una seconda sede fu fondata nel 1106 a Hólar dal vescovo Jón Ögmundarson (1052-1121). Poste inizialmente sotto la giurisdizione dell’arcidiocesi di Amburgo-Brema, cui facevano capo tutte le chiese del Settentrione, nel 1104 le due diocesi passarono sotto il nuovo arcivescovado danese di Lund e infine, nel 1153, sotto quello norvegese di Nidaros (Trondheim). Il clero dell’isola mantenne comunque un alto grado di indipendenza rispetto alle influenze esterne, e fu solo nel corso del XIII secolo, e specialmente dopo l’annessione dell’Islanda al regno di Norvegia (1262), che gli arcivescovi norvegesi riuscirono ad estendere concretamente la loro autorità sulla Chiesa islandese.
Francesco D’Angelo
Per approfondire:
Byock Jesse, La stirpe di Odino. La civiltà vichinga in Islanda, Mondadori, Milano 2012
Chiesa Isnardi Gianna, Storia e cultura della Scandinavia. Uomini e mondi del Nord, Einaudi, Milano 2015, pp. 260-270
D’Angelo Francesco, «In extremo orbe terrarum». Le relazioni tra Santa Sede e Norvegia nei secoli XI-XIII, Nuova Cultura, Roma 2017
Del Zotto Carla, La letteratura cristiana nell’Islanda medievale, in La letteratura cristiana in Islanda, a cura di Carla Del Zotto, Carocci, Roma 2010, pp. 13-53
Lozzi Gallo Lorenzo (a cura di), Íslendingabók e Landnámabók. Nascita di una nazione, WriteUp Books, Roma 2021