‹‹Uno giovane gentile […] nobile cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario››. Così Dino Compagni, politico e cronachista del XIII sec., descriveva Guido Cavalcanti, lasciando ai posteri un’immagine fortunata, seppur enigmatica, del poeta fiorentino. Diviso tra slancio poetico e tensioni politiche, Cavalcanti sarà cristallizzato nella successiva ricezione come un uomo altero e distaccato, in grado di attentare alla vita dei propri nemici. Si tratta principalmente della famiglia dei Donati, contro la quale il poeta si schierò insieme ai Cerchi. Ancora nella cronaca del Compagni, il quale lo aveva personalmente incontrato durante la sua appartenenza al Consiglio generale del Comune, si legge che ‹‹Messer Corso forte lo temea››, tanto da tentare di assassinarlo. Un gesto che Cavalcanti non tardò a ricambiare, tuttavia fallendo a sua volta. Le conseguenze di questo agguato furono care: il poeta fu allontanato dalla città natale proprio dall’uomo che lo avrebbe definito il suo ‹‹primo amico››, il ben noto al lettore Dante Alighieri, all’epoca priore della città di Firenze. 

Eppure, la fama di cui oggi gode Cavalcanti è tutta da attribuire alla sua produzione poetica, la quale non fallisce nel restituire un’immagine inquieta e complessa del fiorentino. Nei suoi versi, di matrice indubbiamente stilnovistica, riecheggia una visione tragica dell’amore. La potenza salvifica della donna amata, espediente peculiare di quella ‹‹dolce›› maniera di poetare (come lo stesso Dante la definirà nel canto XXIV del Purgatorio), verrà meno dinanzi alla passio, ovvero all’inestinguibile sofferenza di cui si riveste la concezione amorosa cavalcantiana. 

Uno dei suoi più celebri sonetti, L’anima mia vilment’è sbigottita, è massima rappresentazione di questa poetica. L’anima del poeta/amante è debilitata e non gode neppure dell’effetto nobilitante dell’amore, in quanto il suo sbigottimento è raggiunto, al contrario, con viltà: la visione della donna amata introduce ‹‹per li occhi […] la battaglia›› che l’anima dovrà sostenere con il cuore. Temendo di essere vinta, l’anima fugge ‹‹e chi vedesse com’ell’è fuggita/ diria per certo: – questi non à vita -››. Il poeta, così, rimane esanime a causa della dispersione, avvenuta attraverso la perdita dell’anima, degli ‹‹spiriti›› regolatori delle forze vitali. 

Come quest’ultimo aspetto fortemente dimostra, Cavalcanti nutriva la propria poetica di nozioni di fisiologia medievale, ovvero di una delle branche della philosophia naturalis basata sugli studi di Aristotele e dei suoi commentatori. Secondo questa concezione, la psiche è governata da spiriti paragonabili per lo più a corpora subtilia esalati dal sangue e responsabili delle facoltà umane. Questi animano le composizioni del poeta, abitandole e determinandone l’immaginario. E così la tragicità della concezione amorosa pervade le Rime, all’interno delle quali ricorrono ossessivamente i tratti antropomorfi degli spiritelli, come spesso Cavalcanti li appella. Dilaniante è il raggiungimento di una consapevolezza: il momento dell’innamoramento che desta gli spiriti d’amore coincide drammaticamente con l’atto di morte del poeta (‹‹quel pauroso spirito d’amore/ lo qual sòl apparir quand’om si more›› [XXII])

Il connubio tra esercizio poetico e conoscenze filosofico-scientifiche caratterizza oltre alla poetica, come inoltre la canzone Donna me prega incentrata sulla fisiologia d’amore dimostra, anche la quotidianità di Cavalcanti. Non a caso Boccaccio, nel dedicare al poeta la nona novella della sesta giornata, lo definisce ‹‹ottimo filosofo naturale››. Da questa narrazione, la fisionomia di Cavalcanti emerge come particolarmente enigmatica: all’interno di un cimitero, scavalcando con slancio una sepoltura, il poeta risponde con un motto di spirito a ‹‹certi cavalier fiorentini›› che lo avevano raggiunto per ‹‹dargli briga››. Al centro della provocazione vi è il presunto ateismo di Cavalcanti, un argomento che ancora oggi anima numerosi dibattiti e che ispessisce ulteriormente l’eccentricità di questo personaggio, soprattutto se calata nel cristianesimo pregnante che dominava il mondo medievale. Ad alimentare tali questioni è il controverso passo della Commedia inserito nel Canto X dell’Inferno. Ai timori di Cavalcante de’ Cavalcanti dovuti al mancato coinvolgimento del figlio Guido nel viaggio ultraterreno, il Sommo poeta risponde: ‹‹Da me stesso non vegno:/ colui ch’attende là per qui mi mena,/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno›› (che sarebbe come dire “non vengo di mia iniziativa, mi manda qui chi mi attende alla meta, forse proprio colui che Guido disdegnò”). Verso chi sia rivolto questo disdegno che Dante attribuisce al poeta è oggetto di un’accanita esegesi. Tuttavia ad oggi quasi concordemente si tende ad attribuirlo a Beatrice, ovvero, come ella è intesa all’interno dell’opera dantesca, alla grazia divina ed alla teologia. Cavalcanti infatti si inseriva tra i negatori dell’immortalità dell’anima, abbracciando l’averroismo, dimensione totalmente inconciliabile con i dettami della Chiesa. 

Eccentrico, superbo, raffinatissimo. La sua ottica struggente, eppure accessibile, dell’esperienza amorosa affascina generazioni di lettori e rende possibile considerare Guido Cavalcanti il lato tragico dello stilnovismo. 

 

Sara D’Agostino

 

BIBLIOGRAFIA

ALFANO G., ITALIA P., RUSSO E., TOMASI F., Letteratura italiana. Dalle Origini a metà Cinquecento. Manuale per studi universitari, Milano, Mondadori Education, 2018
CHIAMENTI M., “The representation of the psyche in Cavalcanti, Dante and Petrarch: The ‹‹spiriti››”. Neophilologus, 82(1), 1998: 71-81
COLANERI J., “Reflection of a man: Guido Cavalcanti”. Paideuma,1/2, 1972: 199–202
MARTI M., “Guido Cavalcanti”, Dizionario Biografico degli Italiani, 22, 1979

 

Share This Story, Choose Your Platform!

Written by : Redazione

Iscriviti alla nostra Newsletter

Leave A Comment