I notai sono tra le figure più emblematiche dell’età comunale, veri protagonisti della vita cittadina sia per quanto concerne la sfera pubblica che del privato. La maggior parte di loro, inoltre, ci sono noti grazie alle firme apposte sui documenti, che evitano allo studioso il duro lavoro di attribuzione, in una disciplina dove l’identificazione dello scrittore è un elemento fondamentale per dare autenticità agli atti.
Prima che queste figure ottenessero la publica fides, ovvero il potere di dare attendibilità ai documenti attraverso la propria sottoscrizione, il processo di legittimazione ha subito continue battute d’arresto, stagnandosi a metà strada per diversi secoli che vanno dalla tarda età repubblicana (I secoli a.C,) fino al pieno XII secolo.
Nell’antica Roma il notarius era lo scriba privato dei grandi personaggi della vita politica ed economica, molto spesso si trattava di schiavi esperti nell’uso delle note tachigrafiche, un sistema di scrittura rapido attraverso l’uso di abbreviazioni e altri segni convenzionali. Conosciamo pochi dei loro nomi a causa dell’uso comune del diritto romano di redigere documenti senza apporre la firma dello scrittore e in generale siamo in un contesto storico nel quale la tradizione orale è ancora molto forte e diffusa.
Verso la fine dell’età repubblicana, per facilitare la memoria dei testimoni, si fa sempre più comune la testimonianza scritta, come era già in uso da tempo nel mondo ellenistico, e ciò portò lentamente, verso il II e III secolo d.C., alla formazione di una vera e propria classe professionale formata da scrittori di documenti privati definiti tabelliones e, in alcuni luoghi, forenses perché operavano presso il foro. La nascita di questi personaggi e l’affermazione dell’atto scritto come elemento costitutivo del negozio giuridico non eliminano del tutto il forte peso che il diritto romano attribuiva all’oralità, come si può vedere dalla conservazione dell’emancipatio (rituale che serviva al figlio per liberarsi della potestà del pater familias), caratterizzata da gesti solenni e parole rituali.
I primi momenti che avvicinano la figura del tabellio al notaio contemporaneo risalgono alle norme del 536 e 538 d.C. emanate dall’imperatore Giustiniano. Queste legano l’attività dei tecnici del documento al riconoscimento da parte dello stato sotto la sorveglianza di un’autorità pubblica, inoltre precisano le modalità di redazione degli atti. I tabelliones dovevano redigere il documento in bella copia, in quanto la minuta, ovvero il primo abbozzo contenente gli elementi generali del negozio, non aveva alcun riconoscimento ufficiale. Successivamente l’autore, cioè chi compiva l’azione giuridica, poneva la sua sottoscrizione e consegnava la charta, termine utilizzato per indicare il documento altomedievale, al destinatario sotto l’occhio dei testimoni e dello scrittore (la ritualità continua ad essere un fattore determinante). Infine, questi ultimi apponevano la propria sottoscrizione e il tabellio firmava con una formula (completio notarile) tramite la quale si assumeva la piena responsabilità della messa per iscritto della volontà delle parti secondo l’esatta procedura giuridica. In questo modo veniva attribuita la funzione dispositiva all’atto, ovvero lo rendeva indispensabile affinché l’azione giuridica fosse riconosciuta valida.
I tecnici del documento assumono, quindi, il compito di rendere pubblica (funzione di pubblicità) la volontà dei soggetti privati, ma tutte queste formalità, che servono a dare valore giuridico all’atto, ci fanno capire quanto il riconoscimento del potere esercitato da queste figure fosse ancora debole. Infatti, a differenza dell’atto pubblico, la cui credibilità si basa sull’ordine emanato da un’autorità e la conseguente redazione all’interno di una cancelleria, il documento privato non riusciva ad avere ancora una piena valenza probatoria. Di conseguenza si fece spesso ricorso allo ius gestorum, ovvero la possibilità di produrre gli atti davanti alle magistrature pubbliche, che riconoscendoli idonei, li inserivano nei registri pubblici e ne rilasciavano una copia che avesse carattere di autenticità. A svolgere questi compiti erano le curiae, le vecchie istituzioni municipali, che in questo periodo vennero sempre più svuotate delle loro responsabilità fino a quando, nel IX secolo, l’imperatore Leone il Filosofo le abolì.
Dopo l‘arrivo dei Longobardi nel VI secolo, il panorama della penisola italica si divise principalmente tra i territori governati da questi ultimi e le terre sotto il dominio bizantino. In queste ultime troviamo la tendenza dei tabelliones a chiudersi in collegi divenendo un gruppo ristretto, fortemente legato al diritto romano, che mantenne viva la normativa giustinianea in materia di documenti. Tra i Longobardi, invece, i redattori degli atti privati presero il nome di notarii, appartenenti in buona parte alla sfera ecclesiastica. I loro documenti ebbero scarsa forza di prova, che si basò per gran parte sulle sottoscrizioni dei testimoni (fanno eccezione, ovviamente, gli scribi privati degli imperatori, alla cui mano veniva riconosciuto il più alto grado di attendibilità). I Longobardi, dopo essersi stanziati nella penisola, nel giro di mezzo secolo adottarono l’alfabeto latino, ma nei loro documenti appare come una lingua rozza e sgrammaticata ben lontana dai classici. Al riguardo gli storici si danno spiegazioni diverse: se da una parte Alessandro Pratesi vede questo fenomeno come un fallito tentativo di imitare la scrittura degli antichi a causa della forte influenza della lingua parlata che presentava numerosi volgarismi, Attilio Bartoli Langeli, invece, lo ritiene un fattore culturale, ovvero una lingua volutamente “rozza” che fosse facilmente comprensibile, quindi, che rispondesse a precise finalità comunicative. A prova di ciò mette in evidenza come nei prologhi delle leggi emanate dal re Ratchis, il latino fosse fortemente formalizzato, mentre nella restante parte del testo si presentasse sgrammaticato. Questa lingua scritta rimase invariata per secoli anche dopo la riforma scolastica dei re carolingi, e, accanto a ciò, osserviamo come il tipo di scrittura adoperata dai notai della penisola, la corsiva nuova italiana, un’evoluzione che subì la corsiva romana dal IV secolo in poi, continuò ad essere utilizzata nei documenti, a differenza dei codici e della documentazione pubblica che adottarono invece la minuscola carolina. La conservazione della scrittura corsiva, oltre che testimoniare un forte legame con la tradizione giuridica, che resistette fino al XII secolo, fu un elemento di unità in un periodo che la paleografia definisce “particolarismo grafico”.
Caduto il regno longobardo, durante il periodo carolingio, i notai delle aree comitali ebbero lo stesso potere dei giudici, arrivando al punto che entrambe le cariche, che ottennero il pieno riconoscimento con la nomina da parte di conti, re o missi, cioè i rappresentanti imperiali nelle contee, furono presiedute dalla stessa persona. In questo modo si superò il problema che aveva portato diversi notai ad appoggiarsi all’istituto dell’ostensio chartae, ovvero il ricorso al tribunale dove, durante il processo giudiziario, le parti recitavano un dibattito fittizio tra accusatore e colpevole con lo scopo di vedere autenticato il documento, in quanto redatto a seguito della sentenza pronunciata dall’autorità che presiedeva il tribunale. In questo modo l’atto, oltre ad avere il pieno riconoscimento giuridico, serviva all’autore del documento per vedersi legittimati i diritti su un determinato bene, in un periodo storico in cui il diritto di proprietà necessitava di numerose garanzie. L’elemento di ritualità continuò a sopravvivere anche in questi secoli, infatti, non è raro trovare nei documenti di tribunale (placiti altomedievali) la menzione di determinate prove puramente irrazionali, come la resistenza al fuoco, che l’accusato doveva superare per vedere riconosciuta la propria innocenza. Sotto Ottone I, in ogni disputa inerente la proprietà di un bene terriero, si poteva fare ricorso ad un duello all’ultimo sangue tra i campioni scelti da entrambe le parti (Giudizio di Dio).
Nonostante alcune differenze sostanziali che caratterizzano il documento notarile in base al contesto storico-giuridico, questo, per tutto l’Alto Medioevo, non ottenne una maggiore forza di prova, caratteristica che rimase invariata dai tempi delle costituzioni giustinianee. Il vero punto di svolta avvenne dal XII secolo e vede tra i suoi protagonisti i notai insieme al Comune di Bologna e allo Studio che daranno vita al “rinascimento giuridico”.
Matteo Cingottini
Per approfondire:
BARTOLI LANGELI A., Notai, Scrivere documenti nell’Italia Medievale, Viella, Roma 2006.
CENCETTI G., Dal Tabellione Romano al Notaio Medievale, in Il notariato veronese attraverso i secoli, Catalogo della mostra in Castelvecchio, a cura di G. Sancassani, M. Carrara, L. Magagnato, Collegio Notarile, Verona 1966.
PRATESI A., Genesi e forme del documento medievale, Jouvence, Roma 2018.
TAMBA G., Una corporazione per il potere. Il notariato a Bologna in età comunale, Clueb, Bologna 1998.