Nella seconda metà del quindicesimo secolo l’Italia si trovava politicamente divisa in una serie di signorie e repubbliche di diversa grandezza. A cinque grandi potenze – il ducato di Milano, i domini di Venezia e Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli – si affiancava un certo numero di entità minori per estensione e rilevanza politica, come il marchesato di Mantova, i territori estensi (Reggio, Modena e Ferrara), la signoria di Rimini, la contea di Montefeltro e la repubblica di Siena. L’equilibrio tra questi poteri si reggeva su basi piuttosto delicate, che di fatto non avrebbero resistito alla prova del tempo e sarebbero state sconvolte dall’inizio delle Guerre d’Italia alla fine del secolo. La fragilità del sistema era dovuta a diversi fattori, uno dei quali era la mancanza di legittimità di due delle dinastie che più recentemente avevano ottenuto il potere: gli Sforza a Milano e gli Aragona a Napoli. Entrambe le famiglie dovevano fronteggiare rivendicazioni straniere sui propri domini: l’imperatore infatti si rifiutò per decenni di concedere l’investitura al duca Francesco e ai suoi eredi, mentre dalla Francia gli Orleans continuavano a rivendicare i propri diritti ereditari sul ducato; gli aragonesi d’altra parte, nella persona di Alfonso il Magnanimo, si erano conquistati il trono con le armi, ma dovettero difenderlo in più di un’occasione dagli assalti angioini, sostenuti dai sovrani francesi e da una parte della riottosa nobiltà regnicola. Cogliendo la non semplice situazione politica, preoccupati anche dalla minacciosa animosità della Serenissima, gli Sforza e gli Aragona trovarono negli anni ’50 del Quattrocento una soluzione pratica al problema comune: si riconobbero reciprocamente, coinvolgendo nel processo di auto-legittimazione gli altri potentati peninsulari contraenti della Lega Italica nel 1455. Questi accordi, frutto inizialmente di una trattativa segreta tra Milano e Venezia, furono suggellati dall’intesa matrimoniale che coinvolse Ippolita Maria Sforza ed Alfonso d’Aragona, nipote di Alfonso il Magnanimo – era infatti il primogenito di Ferrante, figlio naturale del sovrano – e terzo nella linea di successione.
Le nozze furono celebrate dieci anni dopo; Ippolita, nel frattempo, aveva ricevuto un’accurata educazione fondata sullo studio dei classici, della retorica e dell’arte politica. Per rendere chiara la natura del progetto pedagogico sforzesco basterà sottolineare che a lungo la fanciulla condivise il precettore, e di conseguenza le lezioni quotidiane, con suo fratello maggiore Galeazzo Maria: costui era l’erede designato, destinato a reggere il ducato dopo la morte del padre. Il fatto che la sorella ne divenne la compagna di studi dice molto sul ruolo che, nei piani dei genitori, Ippolita avrebbe dovuto ricoprire alla corte di Napoli: quello di trait d’union tra le due corti, mediatrice degli eventuali problemi che sarebbero potuti sorgere tra le due potenze negli anni futuri.
I risultati di questo progetto, sul lunghissimo periodo, diedero i frutti sperati. Ippolita infatti si rivelò, a partire dal 1475, un elemento cardine nel sistema politico-diplomatico italiano e svolse un ruolo importante nella risoluzione di alcune crisi potenzialmente deflagranti; tuttavia, prima di arrivare a ricoprire una posizione prominente, la Sforza dovette passare momenti difficili. Giunta a Napoli nel 1465, la nuova duchessa di Calabria – questo infatti il titolo che il marito Alfonso ricopriva in quanto erede al trono – trovò un ambiente apparentemente amichevole: venne coinvolta dal re Ferrante, succeduto al Magnanimo nel 1458, in una serie di attività ricreative tipiche della vita di corte, quali cacce con il falcone, pratica in cui Ippolita eccelleva, pranzi “fuori porta” in una «grotta vicina a Castel dell’Ovo, con una grande comitiva di bellissime dame», persino giornate di pesca nei pressi della stessa fortezza. Il coniuge era spesso assente dalla capitale per incarichi ufficiali, legati all’esercizio della guerra e del governo, ma non mancarono – almeno inizialmente – momenti di condivisione gioiosa della vita matrimoniale. È la stessa Ippolita a raccontarlo alla madre Bianca Maria Visconti in una lettera: «domani il mio illustrissimo consorte mi porterà a Pozzuoli, a caccia, a visitare le terme e le antichità, con i bagni sulfurei chiamati “bocca dell’inferno”: sono certa che ci divertiremo moltissimo»; in un’altra occasione, i due coniugi avevano speso un pomeriggio leggendo un libro di politologia in spagnolo, tradotto probabilmente sul momento da Alfonso a beneficio della moglie.
Entrambi i giovani, su questo le fonti sono concordi, erano di bellissima presenza. Alta, elegante, aggraziata e particolarmente attenta a curare il proprio corpo e il proprio aspetto (persino re Ferrante si rivolse a lei per ottenere consigli riguardo a una dieta dimagrante!), Ippolita non passava certo inosservata; anche Alfonso, d’altra parte, era secondo le stesse dame di compagnia della duchessa «grazioso come non mai», e si faceva «ogni giorno più bello»; non guasterà ricordare che, mentre la Sforza aveva 20 anni compiuti – ed era quindi, anagraficamente parlando, una donna a tutti gli effetti, anzi sposatasi piuttosto tardi secondo gli standard del periodo – l’aragonese era più giovane di tre anni. Appena diciassettenne, aveva tutte le intenzioni di godere pienamente del proprio status, né si sarebbe lasciato vincolare ad un matrimonio combinato sul quale egli non aveva avuto voce in capitolo. Alfonso non disdegnava l’intima compagnia di donne e uomini, spalleggiato in questo dai suoi amici e compagni d’arme, e poco si curava dei sentimenti della moglie; questa, orgogliosa, non risparmiava al marito scenate di gelosia. In pochi mesi gli episodi di infedeltà del duca e le scenate risentite di Ippolita si svilupparono in un climax preoccupante, il cui apogeo venne toccato nel dicembre del 1466. Cercando di prevenire i tradimenti di Alfonso, la Sforza aveva dato ordine al proprio servitore Donato Pistono di pedinare il duca di Calabria. Donato non doveva essere però un maestro di segretezza, dal momento che l’aragonese e i suoi compagni di scorribande si erano presto accorti della sua maldestra presenza. Fatto oggetto dello scherno dei compari, Alfonso aveva intimato a Donato di interrompere i suoi appostamenti; vistosi ignorato e sentendosi colpito nell’orgoglio, non aveva trovato di meglio che malmenare il poveretto, il quale per le ferite riportate era stato rimandato in tutta fretta a Milano. Nel ducato si temette che un episodio di tale portata avrebbe potuto creare un caso diplomatico, dal momento che nel sistema politico peninsulare le voci correvano rapide e che un simile trattamento riservato ad Ippolita, se lasciato senza conseguenze, avrebbe comportato una diminuzione del prestigio dinastico della casata agli occhi di alleati ed avversari. I duchi inviarono prontamente una protesta pubblica a Ferrante, che minimizzò l’accaduto cercando di ricondurlo a una banale incomprensione tra coniugi; Bianca Maria Visconti, d’altra parte, scrisse rapidamente alla figlia consigliandole prudenza ed invitandola a sopportare con pazienza questo genere di episodi. La risposta di Ippolita giunse l’8 gennaio 1467 in una struggente lettera scritta di proprio pugno (dalla sintassi incerta ma incalzante, dovuta certamente all’emozione della scrivente) nella quale la duchessa ammetteva che le sue azioni erano state cagionate dalla «gran doglia» dovuta ai tradimenti, ma lamentava la mancanza di empatia dimostratale dai famigliari: «ma com’è possibile che io non prenda dispiacere, come la vostra signoria mi comanda, essendo le cose come vi ho scritto, e così questa cosa di Donato – che non me la scorderò mai – poi mi è stata inferta non dico una ferita al cuore, ma credo che mi si spaccò a metà tanto fu il dolore». Ippolita chiudeva la comunicazione con toni drammatici, affermando che non sarebbe stata più la stessa, e maledicendo chiunque avesse spinto la madre a consigliarle di sopportare in silenzio.
La tempesta coniugale passò. Alfonso non smise mai di tradire la moglie, che dovette rassegnarsi e trovare conforto nella maternità e nelle attività devozionali e culturali. La sua parabola politica proseguì tra alti e bassi: nel 1468 fu coinvolta con la madre in un principio di complotto ai danni del fratello Galeazzo, ormai duca di Milano, e perdette gran parte della sua influenza; passò i successivi sette anni ricostruendo faticosamente il proprio prestigio, riuscendoci nel 1475, anno in cui venne presa in considerazione come reggente del regno in occasione di una grave malattia che colpì simultaneamente Alfonso e Ferrante. Nel 1480, al fianco di Lorenzo de’ Medici – con il quale intrattenne un solidissimo rapporto di amicizia –, svolse un ruolo fondamentale nelle trattative di pace seguite alla cosiddetta Guerra dei Pazzi.
La sua lunga carriera si concluse con la morte sopraggiunta nel 1488, a poco più di 40 anni: stella luminosa nel firmamento dell’Italia quattrocentesca, venne celebrata dai contemporanei in numerose biografie encomiastiche.
Matteo Briasco
Nota dell’autore: per favorire la comprensione delle citazioni dalle lettere presenti nel testo è stato “normalizzato” il volgare cancelleresco italico.
Per approfondire:
BRIASCO M., Ippolita e Galeazzo Sforza: l’eredità politica di Bianca Maria, in 1471: «Cose che me fanno crepare lo core»: lettere tra Napoli e Milano, a cura di C. Berardinetti, F. Storti, saggio in corso di pubblicazione.
COVINI M. N., Sforza, Ippolita, in Dizionario Biografico degli Italiani, 92 (2018), https://www.treccani.it/enciclopedia/ippolita-sforza_%28Dizionario-Biografico%29/
MANGIONE T., Una milanese alla corte di Napoli. Ippolita Sforza principessa d’Aragona, in «Con animo virile». Donne e potere nel mezzogiorno medievale, a cura di P. Mainoni, Viella, Roma 2009, pp. 361-453.
MELE V., «Madonna duchessa de Calabria, mediatrice e benefactrice»: mediazione diplomatica, pratiche commendatizie e reti familiari di Ippolita Maria Visconti d’Aragona (1465-1488): tesi di dottorato: dottorato di ricerca in antropologia, storia e teoria della cultura, XXIV ciclo (2008-2011), Università di Siena, tutors prof. Gabriella Piccinni, F. Senatore.