L’immaginario medievale può emergere nei più diversi contesti, anche tra le pagine di romanzi e racconti che per trama e ambientazione nulla hanno a che vedere con quel periodo storico: spesso si tratta di poche righe, capaci però di rievocare elementi di quell’età con grande puntualità, consentendo, a chi sa coglierli, di arricchire la lettura di significati e suggestioni.

È quello che accade ne La foresta della notte di Djuna Barnes (1892-1982), scrittrice americana che giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio modernista del secolo scorso: l’opera venne pubblicata per la prima volta nel 1936 con una prefazione di T.S. Eliot, che vi trovò “una qualità di orrore e di fato strettamente imparentata con quella della tragedia elisabettiana”.

Due gli elementi ‘medievaleggianti’ già colti nell’opera di Barnes: il primo si trova proprio ne La foresta della notte dove nella descrizione dell’abitazione del falso barone Guido Volkbein, accanto a elementi rococò e statue neoclassiche, compaiono blasoni di medievale memoria funzionali nel comporre una Wunderkammer dalle forme stridenti capace di legittimare, in modo ironico, con la sua opulenza decorativa la millantata nobiltà di Guido; il secondo costituisce l’intelaiatura di Ladies Almanack, pubblicato nel 1928, dove l’autrice attua una rielaborazione iconografica in chiave femminista del calendario medievale al fine di ritrarre le attività intellettuali e ricreative del salon, in prevalenza omossessuale, di Natalie Barney – per ognuno dei mesi Barnes affianca alle descrizione di problematiche muliebri una vignetta, il cui stile rammenta le xilografie di età elisabettiana e in cui compaiono personaggi femminili colti in atteggiamenti che rinnegano in modo grottesco i loro abiti puritani.

Gli studiosi hanno inoltre evidenziato, non solo una profonda conoscenza da parte dell’autrice dell’immaginario medievale, che può essere richiamato nelle forme ora di singoli motivi e personaggi ora di un tema iconografico specifico, come quello del calendario, ma anche una forte dimensione ecfrastica del suo stile, capace di ricreare quella corposa evidenza che è propria delle immagini.

Nel museo linguistico che la scrittrice compone ne La foresta della notte il medioevo trova in particolare un suo spazio in due passaggi che ci restituiscono frammenti evocativi del mondo duecentesco. Vediamo di analizzarli.

Nel primo leggiamo: “Oh, infedele! Io non sono un erborista, non sono un Rutebeuf, non ho panacee, non sono un ciarlatano – cioè non posso, o non voglio, stare in equilibrio sulla testa. Non sono un acrobata, né un frate, né una Salomè duecentesca che danza col culo per aria su due lame di Toledo […] Se non credete che queste cose accadessero nella lunga storia di ieri, guardatevi i manoscritti del British Museum o andate alla Cattedrale di Clermont-Ferrand, per me è lo stesso […]”.

Partiamo da Rutebeuf, citato come figura esemplare di truffatore: si tratta di un poeta francese del XIII secolo (1230-80?), che, oltre ad aver condotto l’esistenza del giullare, evocando la propria miseria e i propri vizi in La Complainte Rutebeuf, che nei toni e nei temi anticipa la poetica di François Villon, compose anche Le dit de l’herberie, monologo di un ciarlatano che vende erbe medicinali millantandole come panacee.

In un continuo fluire di immagini biografiche, narrative e pittoriche che si richiamano a vicenda per assonanza di significato il giullare, simbolo di licenza e corruzione e come tale condannato dalla Chiesa, diviene la figura capovolta, che “a testa in giù e con i piedi in aria si [tiene] e cammina sulle mani al contrario di quello che fanno gli uomini, attirando così su di sé tutti gli sguardi» (Lettera 87 di san Bernardo di Clairvaux a Ogerium Canonicum Regularem), e ponendosi come segno iconografico di instabilità e alterazione dell’ordine divino, come emblema di irrazionalità e sovversione.

Nel brano di Barnes questa immagine assume poi le forme di un altro personaggio, quello della figlia di Erodiade: la frenesia della danza si sposta così dall’essere uno dei modi identificativi dei saltimbanchi alla puntuale evocazione di un episodio biblico, la danza che Salomè eseguì durante il convito di Erode Antipa, il quale, ammaliato e conquistato dalla giovane, le concesse per premio qualunque cosa desiderasse, promessa che lo obbligò a rendere alla donna la testa di san Giovanni Battista (Marco 6: 14-29; Matteo 14: 1-12).

Le più antiche testimonianze figurative di questo tema compaiono nella prima metà del IX secolo, ma solo a partire dal XII secolo il ballo della figlia di Erodiade iniziò a svolgersi in forme più acrobatiche, rammentando i movimenti dei giullari che animavano le corti del Medioevo – troviamo così Salomè raffigurata a testa in giù su uno dei capitelli della sala capitolare dell’abbazia di Saint-George de Boscherville, in una delle formelle bronzee del portale maggiore di San Zeno a Verona, nel portale sud di Saint-Lazare d’Avallon in Borgogna e nel ciclo pittorico dell’abbazia benedettina di San Giovanni a Müstair (fig.1).

Fig. 1 Müstair, monastero di San Giovanni, La danza di Salomè, particolare

Questa variazione iconografica, che giunse a maturazione nel corso del Duecento, fu determinata dalla volontà della Chiesa di avversare certe forme di intrattenimento, e rappresentare Salomè nelle vesti di un’acrobata era un modo di associare un valore negativo a qualunque forma di spettacolo prevedesse quel tipo di danze e movenze.

Quello che a questo punto possiamo fare per dimostrare la puntualità delle citazioni di Barnes è andare a ricercare testimonianze di questo disegno tra i manoscritti della British Library e nella cattedrale di Clermont-Ferrand: in entrambi i casi la ricerca non risulterà vana. Se in Notre-Dame-de-l’Assomption il tema compare nelle vetrate della cappella di Saint-Jean (XIII sec.), nel ms. Additional 47682 della biblioteca londinese (1327-1335), a f. 21v, troviamo l’intero episodio distribuito su due ordini – su quello superiore vediamo la danza di Salomè nelle forme che abbiamo descritto (fig. 2) e il dialogo di quest’ultima con la madre, su quello inferiore la decollazione del Battista e la consegna della sua testa a Erodiade. Un disegno simile si trova nel registro inferiore del timpano del portale sinistro della facciata occidentale della cattedrale di Rouen (1240-50 circa: fig. 3), dove Salomè è rappresentata a testa in giù, il corpo appoggiato sulle mani, il busto fortemente arcato e le gambe piegate all’altezza delle ginocchia tanto che i piedi le sfiorano il capo, una soluzione che ispirò Gustave Flaubert nel descrivere l’episodio nella novella Herodias: “Lei si gettò sulle mani, i calcagni in aria […] La nuca faceva con le vertebre un angolo retto. Le guaine e i colori che le avvolgevano le gambe, passandole sulle spalle le chiudevano il viso, ad un gomito da terra, in un doppio arcobaleno”.

Fig. 2 London, British Library, ms. Add. 47682, f. 21v, particolare

Fig. 3 Rouen, Cattedrale, facciata occidentale, portale, La danza di Salomè, particolare

Torniamo ora alla danza così come è tratteggiata da Barnes. In nessuna delle immagini fin qui citate abbiamo infatti trovato le due lame di Toledo, sulle quali la figlia di Erodiade compirebbe la sua danza come segno della sua abilità e al contempo della pericolosità di quell’atto, ma, ancora una volta, il dettaglio inserito dalla scrittrice non risulta per nulla casuale e trova un puntuale riscontro in una miniatura del manoscritto Auct. D. 2. 6 della Bodleian Library di Oxford, contenente le Preghiere e le Meditazioni di Anselmo di Canterbury e realizzato intorno alla metà del XII secolo (fig. 4). A f. 166v il complesso disegno che accompagna l’iniziale istoriata ‘S’ (Sancte) accosta al corpo della lettera una superficie quadrangolare, che, coronata esternamente da una torre e da svariati edifici, accoglie la spericolata danza di Salomè: la donna non solo è raffigurata a testa in giù ma impugna con le mani due spade, mentre altre due lame sono sospese accanto al suo corpo, una prefigurazione dell’arma che il carnefice sta per utilizzare nella scena della decollazione rappresentata lì accanto, nella parte inferiore dell’iniziale.

Fig. 4. Oxford, Bodleian Library, ms. Auct. D.2.6, f. 166v, particolare

Arriviamo quindi al secondo dei brani de La foresta della notte citati in apertura:

C’è qualcosa di mutilo e di intero, nel Barone Felix … dannato dalla cintola in su, il che mi ricorda Madamoiselle Basquette, che era dannata dalla cintola in giù: era una ragazza senza gambe, costruita come un obbrobrio medioevale […]”.

Qui non possiamo che riconoscere un richiamo a quegl’ibridi che animano l’immaginario letterario e artistico medievale e che trovarono la loro condanna e al contempo una delle definizioni critiche più puntuali nelle parole “deformis formositas, ac formosa deformitas” (deformi bellezze, e belle deformità) che san Bernardo utilizzò nella sua Apologia inviata a Guglielmo di Saint-Thierry nel 1125, descrivendo le figure dei capitelli dei chiostri romanici.

Lo storico e critico d’arte Jorgis Baltrušatis fu il primo a tracciare un’evoluzione di questi disegni, rilevandone la diffusione soprattutto dopo il 1250 e quindi indicandoli come elemento proprio dell’immaginario gotico: da una prima tipologia rudimentale, dove l’intero corpo venne sostituito dalla testa, si giunse a esseri più complessi ma sempre caratterizzati da evidenti anomalie anatomiche che porteranno tra Quattro e Cinquecento, in quello che viene considerato l’ultimo stadio del grillo gotico, alla perdita di una qualsiasi parvenza di organicità – comparvero così teste dotate di zampe ma prive di ventre e tronco, o si innestarono una molteplicità di visi su forme ora antropomorfe ora zoomorfe.

L’obbrobio richiamato nelle pagine de La foresta della notte non vuole però porsi come segno di una storia delle forme né come emblema delle complessità semantica di questi disegni bensì come semplice figura bizzarra utile per definire un personaggio, ricorrendo, ancora una volta, a un’immagine figurata, efficace per la sua forza evocativa.

In conclusione vorrei proporre un ultimo punto di vista sulla presenza del linguaggio visivo medievale nell’opera di Djuna Barnes. La scrittrice sembra infatti, consapevolmente o meno, ricorrere a un espediente retorico proprio della miniatura medievale prima che la rinascita del naturalismo filosofico e rappresentativo rendesse la pagina tardo duecentesca una realtà spazialmente omogenea e subordinata a un unico punto di vista: mi riferisco all’adozione di una narrazione per cornici, che, affiancate in modo paratattico, restituiscono molteplici punti di vista, espressi a loro volta con stili diversi e dissonanti, e racchiusi in un riquadro tematico più grande, una traduzione in chiave modernista e narrativa di ciò che la pagina miniata era nel libro medievale, luogo di coesistenza di stili, linguaggi e prospettive difformi, tenute insieme dai margini del foglio, dalle colonne di scrittura e dal valore del segno letterale come luogo altro da quello dei margini dove non ci stupiremmo di trovare, dannata dalla cintola in giù, un’antenata di Mademoiselle Basquette.

Federica Volpera

Per approfondire:

BALTRUŠATIS JURGIS, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica (Le Moyen Âge fantastique : antiquités et exotismes dans l’art gothique I ed. 1955), Milano, Adelphi 1998

BAERT BARBARA, Revisiting Salome’s Dance in Medieval and Early Modern Iconology, Peeters, Leuven-Paris-Bristol 2016

BARNES DJUNA, La foresta della notte, (Nightwood, I ed. 1936) Milano, Adelphi 1983

DEVYNCK DANIÈLE, La saulterelle déshonnête, in Salomé dans les collections française, St.-Deni, Musée d’art e d’histoire, 1988, pp. 17-19

Voce Rutebeuf in Enciclopedia Italiana Treccani consultabile al seguente link:

https://www.treccani.it/enciclopedia/rutebeuf_%28Enciclopedia-Italiana%29/

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Written by : Redazione

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One Comment

  1. Laura Poggio 19 Novembre 2022 at 13:07 - Reply

    Questo contributo è molto interessante e la lettura è molto scorrevole ed esplicativa.
    Molto brava e competente l’autrice.

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