Nel 1184, Guglielmo di Tiro, storico, cancelliere di Gerusalemme e arcivescovo di Tiro, nel suo Chronicon sulla storia degli Stati Crociati fa riferimento a Goffredo di Buglione. Affermava di non voler dare troppo credito alle leggende che circolavano sulla sua discendenza. Ma chi era questo personaggio? E a quale leggenda faceva riferimento l’arcivescovo?
Complice anche la sua morte prematura all’apice del successo, il cavaliere franco Goffredo di Buglione, prima duca della Bassa Lorena, e poi tra i principali protagonisti della Prima Crociata, raggiunge ben presto fama imperitura come l’eroe artefice della conquista e della liberazione del Santo Sepolcro di Gerusalemme dagli infedeli nel 1099, e poi ne diventa il Difensore – Advocatus Sancti Sepulchri – , preferendo questo ruolo a quello di re che invece i crociati volevano conferirgli.
Intorno alla sua carismatica figura, pervasa per questi motivi e per le sue doti di condottiero da un’aura di sacralità, si svilupparono ben presto numerose leggende. Non è difficile immaginarlo, in un’epoca e in un contesto – quello delle crociate – in cui la fede era considerata il fondamento della propria esistenza e del proprio agire nel mondo, e in cui il soprannaturale si manifestava nei racconti dei soldati, dei predicatori e dei cantastorie itineranti al seguito delle spedizioni dei signori verso la Terra Santa.
Ad un certo punto tra il XII e il XIII secolo, una leggenda viene associata alla dinastia di Goffredo: si presume che il nonno di Goffredo, Helyas, fosse il Cavaliere del Cigno, mitico eroe che giunse su un battello trainato da un cigno per difendere il casato di Buglione dalle pretese territoriali dei signori limitrofi. Qualunque sia la versione della storia, il cavaliere ad un certo punto è costretto a fare ritorno nell’ignoto dal quale proviene, a causa dello svelamento della sua identità da parte della sposa.
Secondo molti studiosi le origini della leggenda sono ben più antiche, e risalgono ai racconti popolari oralmente diffusi dai Jongleurs (i giullari medievali), e poi ripresi molti secoli più tardi, nel clima romantico di riscoperta del folklore e delle radici, nei soggetti delle fiabe realizzate dai fratelli Wilhelm e Jacob Grimm – in particolare si pensi a I dodici fratelli, I sette corvi e I sei cigni – e in quelle di Hans Christian Andersen – nella fiaba I cigni selvatici. È dimostrabile, per certi casi comunque, che alcuni di questi autori si basarono direttamente su testi latini medievali, utilizzandoli come fonti per i propri racconti, come ad esempio i fratelli Grimm.
Nel Dolopathos sive de rege et septem sapientibus – tradotto in Dolopato ovvero Il re e I sette sapienti – un’opera in latino collocabile nel XII secolo, composta dal monaco cistercense Giovanni di Alta Selva, viene riportata una delle prime versioni della leggenda. Il racconto Cygni del settimo sapiente è quello che cattura il nostro interesse: sette fratelli sono vittime di una serie di peripezie, a causa delle quali vengono trasformati in cigni. Alla fine del racconto tutti i fratelli ritornano umani, tranne uno, che rimane in forma di cigno: «è questo quel famoso cigno del quale è rimasta fama eterna per aver trascinato con la collana d’oro un soldato armato dentro una barchetta».
Giovanni si premura di associare la sua opera al vero o comunque al verosimile, e per dare prova di questa verosimiglianza, mette la sua opera sullo stesso piano degli episodi biblici e di storie pagane convalidate da autorità cristiane. Così la fiaba inizia a farsi strada nella parola scritta: con riferimenti spaziali e temporali, può essere accettata come di cronaca di eventi prodigiosi, nella Francia del XII secolo.
La storia del Cavaliere del Cigno continua nelle canzoni, e in particolare nella Chanson du Chevalier au Cygne. La storia vede protagonista il Cavaliere, che giunge a Nimega per salvare i territori della duchessa Clarissa di Buglione, presi di mira dal conte Ranieri di Sassonia. La sua ricompensa è la mano di Beatrix, la bella figlia della duchessa, che in cambio però non potrà mai conoscere la vera identità del cavaliere. Un angelo rivela alla donna che avrà tre figli, e, senza rivelare l’identità del suo consorte, le assicura che egli è di stirpe più nobile dello stesso imperatore. Figli del Cavaliere e di Beatrix saranno Eustachio, Baldovino e Ida, e quest’ultima, che acquisirà Boulogne per matrimonio, sarà a sua volta madre di Goffredo, Eustachio e Baldovino. Dopo sette anni però Beatrix rompe la promessa di non chiedere l’identità del cavaliere, e quest’ultimo è costretto a congedarsi per sempre, dopo che il cigno giunge con il battello e lo richiama per tre volte. Così come era giunto – perfino con gli stessi abiti – il cavaliere va via.
La leggenda conquisterà anche altri paesi e altre letterature, come quella olandese, scandinava, islandese, ma soprattutto quella tedesca, dove avrà un seguito importante. Nella tradizione in cui il Cavaliere viene però rinominato Lohengrin, in un secondo momento, il mito viene fuso con il ciclo arturiano, e in particolare con la leggenda di Parsifal, cavaliere della tavola rotonda legato alle vicende del Sacro Graal. La leggenda dei bambini-cigno sembra inoltre avere un legame indissolubile con la regione della Lorena (Lothar-ihgia), dove alcuni studiosi ritengono abbia avuto origine.
Fin dall’antichità, soprattutto nel mondo occidentale, il cigno è stato spesso utilizzato come animale-simbolo, anche se in questo caso sarebbe più appropriato parlare di animale-guida. Associato alla nobiltà, alla purezza, all’innocenza, ma anche alla solitudine, e infine alla morte, trova grande affinità con i caratteri di questa leggenda. Al punto che, se un tempo la leggenda dei bambini-cigno e quella del Cavaliere erano divise – come alcuni studiosi affermano – la coerenza che insieme hanno assunto si fa spazio nel labirinto delle loro rappresentazioni letterarie.
Anna Mattiello
Per approfondire:
Varvaro A., Il fantastico nella letteratura medievale, Il Mulino, Bologna, 2016.
Jaffray R., The two Knights of the Swan, Lohengrin and Helyas, Putnam’s Sons, New York-London, 1910.
Donà C., Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Rubbettino, Catanzaro, 2003.