Se la storia è un romanzo, tanto vale inventarla

Maurizio Virdis

 

Falsi, falsari e smascheratori

La Sardegna culla della letteratura italiana? Sì, almeno secondo le Carte d’Arborea, i famosi falsi documentari prodotti nell’isola alla metà dell’Ottocento. Documenti che sarebbero provenuti, nientemeno, che dall’antico archivio del Giudicato d’Arborea, la più longeva delle quattro entità statuali che si erano formate in Sardegna nel Basso Medioevo, dopo il distacco dall’Impero Bizantino. Ad annunciare la scoperta fu, nel 1845, il frate minore Cosimo Manca del convento cagliaritano di Santa Rosalia. Autore materiale dei falsi sarebbe stato, invece, Ignazio Pillito, scrivano presso il Regio Archivio di Cagliari. Questi, dopo aver venduto a caro prezzo i documenti allo storico Pietro Martini, direttore della Biblioteca Universitaria di Cagliari, si prese l’onere, sempre a caro prezzo, di decifrare le difficili scritture da lui stesso vergate, guadagnandosi la fama di “valentissimo leggitore di documenti antichi”. Tra gli altri possibili complici, forse, i sacerdoti Salvator Angelo De Castro e Gavino Nino, alla ricerca della gloria accademica.

Dopo i primi “ritrovamenti”, negli ’50 dell’Ottocento comparvero ulteriori documenti, comprendenti poesie in volgare italico. L’interesse per le Carte d’Arborea varcò dunque le coste dell’isola, coinvolgendo importanti studiosi, nonché semplici curiosi, italiani e non solo. Un portentoso ritrovamento, che da subito suscitò numerosi dubbi e diede vita a un acceso dibattito che, come scriverà Benedetto Croce, “mise a rumore il mondo”.  La querelle si concluse nel 1870, quando una commissione dell’Accademia delle Scienze di Berlino, presieduta dallo storico ed epigrafista Theodor Mommsen, appurò la falsità delle Carte d’Arborea. La stroncante perizia evidenziò le circostanze rocambolesche del ritrovamento delle Carte, già di per sé spia di falsità, nonché gli evidenti anacronismi a livello paleografico, lessicale e morfologico.

Il Medioevo, fucina delle identità

Di maggiore interesse, però, è l’argomentazione storica che fu addotta dallo storico tedesco Alfred W. Dove e dal filologo italiano Girolamo Vitelli. Quest’ultimo colse appieno la valenza ideologica e culturale alla base di questi falsi documentari. L’input della falsificazione, oltre che nel tornaconto personale, era infatti da rintracciare in una sorta di “complesso di inferiorità” dell’intellettualità sarda. Occorre ricordare che il Regno di Sardegna, dopo quattro secoli di dominazione iberica, dal 1720 era passato sotto il governo dei duchi di Savoia, che acquisirono così il titolo regio. L’isola rimase istituzionalmente separata dal Piemonte, mantenendo gli antichi ordinamenti del Regnum sino alla metà dell’Ottocento. Proprio in questo frangente, alla vigilia dell’unione politico-amministrativa con gli stati sabaudi di terraferma (1847) e del Risorgimento italiano (1861), gli intellettuali isolani iniziarono a sognare una storia illustre che la Sardegna, a loro avviso, non possedeva. Ci si doveva presentare all’appuntamento con la storia con tutte le patenti culturali che facessero apparire l’isola alla pari dei “popoli” della “Nuova Italia”. Bisognava indossare l’abito buono, insomma. Anzi: fabbricarsene uno.

Il riscatto della “piccola patria” nei confronti della patria più grande che si stava costruendo non poteva che essere ricercato in un lungo periodo della Storia sarda che, in buona parte, era allora incognito: il Medioevo, la fucina delle origini e delle identità nazionali del Romanticismo europeo. E le Carte d’Arborea risposero a queste domande di storia e identità, inserendosi nella lunga fioritura di falsi storici che caratterizzò la cultura letteraria e la storiografia europea del Settecento e dell’Ottocento.

Uno dei falsi documenti d’Arborea

I falsari inventarono così una Sardegna che si era affrancata dall’Impero Bizantino già alla fine del VII secolo, libera e costituitasi subito in regno indipendente. Una Sardegna ove si sarebbe presto evoluta una lingua autoctona, manifestatasi anche a livello letterario, e dove, dal XII secolo, si sarebbero sviluppate forme di poesia cortese in volgare italico, addirittura precedenti alla Scuola poetica siciliana. Una portentosa falsificazione, dunque, dalla doppia valenza: da una parte, la Sardegna avrebbe avuto antiche e solide origini nazionali; dall’altra, la sua lingua sarebbe stata attestata per iscritto da molti secoli, anche a livello letterario. Il tutto accreditava una individualità nazionale storicamente consolidata e, parimenti, uno sviluppo culturale che era anche, pur non esclusivamente, italiano. L’intellettualità sarda, di cultura iberica sino agli inizi del XVIII secolo ma nell’Ottocento fieramente anti-ispanica, si sarebbe così identificata come italiana, entrando a pieno titolo nel processo risorgimentale, ma conservando, al contempo, una propria specificità ed individualità nazionale.

Un romanzo storico della Sardegna medievale

Quello costruito dalle Carte d’Arborea è, in fin dei conti, un romanzo storico della Sardegna medievale: un romanzo storico d’invenzione, ovviamente, tanto di moda nel secondo Ottocento. Del resto, un falso storico è pur sempre una testimonianza a suo modo veritiera, che riflette il coevo clima ideologico-culturale: esso deve apparire verosimile per l’opinione pubblica, per il suo sistema di credenze, valori e aspettative. Non a caso, la ricostruzione del passato proposta dai falsi arborensi si fondava su opinioni al tempo anche autorevolmente sostenute. Le Carte d’Arborea sono pertanto una fonte preziosa per comprendere la mentalità e l’autorappresentazione dei ceti colti, ma anche semicolti, della Sardegna del secondo Ottocento. La vicenda non si esaurisce però nel 1870. Se negli ambienti accademici isolani, a cavallo del secolo, il romantico orgoglio nazionale lasciò progressivamente il posto alle nuove metodologie storico-critiche, gli eroi celebrati dalle Carte d’Arborea trovarono posto al di fuori dell’accademia, in spazi sociali ove ai processi di rielaborazione del passato non erano richiesti i metodi propri della ricerca critico-documentaria.

A figure storiche portate alla ribalta dalle Carte d’Arborea, come la giudicessa Eleonora d’Arborea, furono dedicate statue e intitolate vie e piazze in diverse città e cittadine dell’isola. Nasceva così un culto laico, che andò ad alimentare una memoria collettiva sino ad allora, in verità, priva di una memoria storico-nazionale realmente consolidata. Allo stesso modo, riscossero successo le rielaborazioni in chiave letteraria del passato dell’isola, come i romanzi storici del sassarese Enrico Costa (Rosa Gambella, 1897; Adelasia di Torres, 1898).

L’inventio del passato

Questa costruzione dell’identità sarda è continuata nel corso di tutto il Novecento: dal mito della nazione sarda, consolidatosi delle trincee della Brigata Sassari, al Partito Sardo d’Azione di Emilio Lussu e Camillo Bellieni; dalle questioni autonomistiche del secondo dopoguerra sino all’attuale dicotomia globalità-localismo. Nelle identità post-moderne e negli attuali ritorni, in scala variata, del nazionalismo, un posto preminente è del resto ricoperto proprio dall’invenzione e reinvenzione del passato. In un presente ritenuto fallimentare, l’assenza di una storia considerata di successo o una storia che non piace (o meglio, che si conosce in maniera errata) generano processi di rimozione e ricostruzione del passato. È qui che traggono origine le varie teorie pseudoscientifiche sulla storia sarda che, non di rado, vengono sovente alla ribalta sui principali organi di informazione mediatica isolani (e non solo).  

Una domanda di storia, dopotutto. Una domanda alla quale occorre dare una risposta autorevole, sia dentro che (soprattutto) fuori dal mondo scolastico e universitario. Quando infatti la richiesta di storia non viene soddisfatta, la storia la si inventa e la si continua a inventare. Lo sa bene il mitico re Gialeto, esistito solamente nel regno della fantasia delle Carte d’Arborea, ma al quale, a suo tempo, furono intitolate vie, associazioni e persino una società sportiva… che ancora oggi portano il suo nome! Le Carte d’Arborea vivono ancora e, nella loro falsità, hanno delle verità da raccontare a noi, uomini del presente.

 

Francesco Borghero

 

Per approfondire:

GAVIANO PAOLO, Le Carte d’Arborea, S’Alvure, Oristano 1996.

MARROCU LUCIANO (a cura di), Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, AM&D, Cagliari 1997.

MARROCU LUCIANO, Theodor Mommsen nell’isola dei falsari. Storici e critica storica in Sardegna tra Ottocento e Novecento, CUEC, Cagliari 2009.

RUDAS NEREIDE, Identificazione e identità nella genealogia individuale e collettiva: il caso delle “Carte d’Arborea”, in Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed età moderna. Studi storici in memoria di Alberto Boscolo, a cura di L. D’Arienzo, vol. I, Bulzoni, Roma 1993, pp. 631-650.

VIRDIS MAURIZIO, Le false carte d’Arborea: un groviglio filologico-linguistico, una truffa geniale, in Atti del XXVIII Congresso internazionale di linguistica e filologia romanza (Roma, 18-23 luglio 2016), a cura di R. Antonelli – M. Glessgen – P. Videsott, vol. II, Éditions de linguistique et de philologie, Strasburgo 2018, pp. 1355-1363.

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Written by : Redazione

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