Cosa spingeva esseri umani fatti di carne e ossa a chiudersi in pesanti armature roventi d’estate e gelide d’inverno, a lanciarsi uno contro l’altro armati di lance, asce, mazze, spade, armi capaci di infliggere ferite atroci e rendere un giovane invalido per il resto della vita? Cosa agitava le menti di quegli uomini e sosteneva i loro sforzi quando ingaggiavano faide sanguinose e guerre feroci talvolta oltremare, in terre lontane, più spesso contro vicini e parenti?
Proviamo a farci aiutare dalla canzone di gesta di cui è protagonista il più famoso degli eroi epici medievale, Rolando, redatta grossomodo a cavallo tra XI e XII secolo, ma il cui materiale è certamente più antico.
Mentre l’alba sorge sul campo di Roncisvalle e l’attacco dei Saraceni contro la retroguardia franca appare imminente, Rolando, deciso ad affrontare la lotta costi quel che costi, incoraggia i suoi a colpire duramente, «affinché una mala canzone di noi non si canti! / I pagani hanno torto e i cristiani ragione. / Io non sarò mai un cattivo esempio!» (vv. 1014-16). Rolando è molto chiaro su ciò che lo spinge a restare sul campo di una battaglia che già si prospetta disperata. Non è certamente la necessità di difendere la Cristianità dalla minaccia saracena, anzi: proprio i Saraceni sconfitti da Carlo Magno avevano chiesto e ottenuto la pace! Rolando si trova a Roncisvalle per una questione d’onore e una faida finita male che fa da prologo alla vicenda. Durante un consiglio di guerra Rolando aveva accusato di vigliaccheria il patrigno Gano, favorevole alla pace coi Saraceni, davanti ai baroni franchi e all’imperatore. A peggiorare le cose, Carlo Magno, zio di Rolando, aveva ordinato a Gano di recarsi presso il re saraceno Marsilio per comunicargli l’accettazione della tregua. Ruolo pericolosissimo, ma Gano non può rifiutare: l’accusa di Rolando diventerebbe reale. E quando torna incolume, Gano si vendica: che sia Rolando a guidare la retroguardia franca! Compito altrettanto pericoloso. Rolando accetta spavaldo; Carlo Magno teme per il nipote, ma non può negargli il comando o farebbe di Rolando un vigliacco rispetto a Gano. Ci vorrà poco perché tutti si rendano conto che Gano si è accordato con i Saraceni per tendere una trappola al nipote dell’imperatore.
Ecco ciò che preoccupa Rolando al punto da accettare il rischio mortale: il danno potenziale che la sua reputazione riceverebbe se decidesse di sottrarsi a quello scontro di cui lui è il primo responsabile. Rolando ha messo in dubbio l’onore di Gano; non può permettersi di essere da meno del patrigno, rischiando il proprio onore e quello dello zio imperatore. È lo spettro dell’onta che davvero terrorizza Rolando. Il suo compagno Oliviero lo appoggia ed esorta i Franchi a tenere il campo tra le grida entusiaste dell’esercito. Nessun passo indietro, dunque.
Ma se entrambi sono decisi a accettare battaglia contro l’esercito del re Marsilio, ecco profilarsi un contrasto fra i due paladini. Per tre volte il saggio Oliviero esorta Rolando a suonare il corno Olifante per chiamare in aiuto della loro piccola retroguardia il grosso dell’esercito franco, diretto verso casa. Ogni volta Rolando respinge in maniera categorica il suggerimento: «[…] passerei da folle! / Nella dolce Francia perderei il mio nome!» (vv. 1053-54). Non è solo lui a rischiare: cosa sarà della reputazione della sua famiglia, di cui fa parte lo stesso Carlo Magno? «Non piaccia al Signore Iddio / Che i miei parenti siano biasimati a causa mia!» (vv. 1062-63). Ma Oliviero, uomo saggio (sage), vista l’enorme sproporzione delle forze in campo, non vede alcun motivo di biasimo nel chiamare le truppe dell’imperatore in soccorso della retroguardia franca: nessuna reputazione è a rischio. Quando ormai sarà troppo tardi, con i cavalieri franchi che cadono uno dopo l’altro attorno a lui, Rolando si decide a suonare il corno attirandosi il sarcasmo di Oliviero. Rolando non comprende l’ira del compagno, gliene chiede ragione. Oliviero risponde senza mezzi termini: «[…] Compagno, voi siete la causa, / Perchè cavalleria senza senno è follia. / Vale più la misura (mesure) della stoltezza» (vv. 1723-25).
L’onore e ancor più le diverse percezioni di ciò che è onorevole, è chiaramente la preoccupazione principale tanto di Rolando, che lo declina in termini intransigenti, quanto di Oliviero, non meno deciso a ingaggiare lo scontro ma che – da guerriero più navigato – non ritiene che combattere una battaglia da una posizione di forza sia una minaccia alla loro reputazione. L’onore è al centro della contesa verbale tra i due paladini e ciò che li ha portati a morire a Roncisvalle. È un qualcosa che nessuno vuole perdere e tutti cercano di mantenere. Per la propria reputazione, certo, ma anche per quella della propria famiglia. Un oggetto così impalpabile: qual è il motivo della sua centralità? Cos’è questo scheletro che sembra reggere e muovere le sorti di re e cavalieri?
Nelle società prestatali come sono quelle medievali, l’onore è un concetto culturale formato da attributi sia individuali che sociali amalgamati insieme e che facilitano sia l’acquisizione di influenza politica, sia l’accumulo di ricchezze materiali. Ma in queste società, che gli antropologi definiscono honor-driven, l’onore è come una sorta di risorsa preziosa disponibile solo in scarsa quantità, sempre a rischio di diminuzione nel corso del tempo e che, di conseguenza, si trova al centro di una competizione costante fra individui e gruppi ansiosamente impegnati nel tentativo costante di acquisirlo, mantenerlo e, potenzialmente, accrescerlo. Un vero e proprio gioco competitivo in cui persino i defunti sono coinvolti, almeno fino a che la memoria delle loro azioni, non importa quanto leggendarie, viene tenuta viva e continua a riflettersi sui loro discendenti.
Il problema principale dell’onore, infatti, oltre alla sua scarsità, sta nella sua natura di concetto socialmente determinato: non basta limitarsi a rispettare una serie di comportamenti più o meno codificati, condivisi e accettati dalla società. Il singolo individuo non è automaticamente portatore di status: sono la società e in particolare i suoi pari a riconoscerglielo o meno. In questo gioco senza fine, infatti, colui che gode della fama di uomo d’onore – sia per merito, per nascita, per le ricchezze o per tutti questi motivi – può permettersi addirittura di compiere atti ritenuti negativi. Per contro, l’uomo senza onore, per quanto si impegni, non ha alcuna certezza di vedersi riconosciuto il valore delle proprie azioni, mettendo in forse la possibilità di un miglioramento del suo status. E poco importa se da felloni e codardi ci si trasforma in cavalieri senza macchia e senza paura: l’onore e la reputazione sono negli occhi di chi guarda, valuta e giudica il valore dei propri pari, anch’essi impegnati in questa competizione. Non c’è niente di automatico. L’intelligenza, l’abilità e magari anche un po’ di spregiudicatezza, permettono ai partecipanti di piegare e manipolare gli strumenti di questo gioco delicato in cui in qualsiasi momento si corre il rischio di male interpretare le intenzioni altrui, dando vita a malintesi che possono portare a escalation di violenza. Ma l’ultima parola spetta sempre agli altri.
Posta in palio è lo status. La lotta per l’accaparramento dell’onore in funzione del rango era essenziale nel definire e mantenere differenze di status in società prive di apparati statali come sono quelle europee (e non solo) per gran parte del Medioevo. La violazione di norme e costumi, magari solo percepita (poco importa quanto questa percezione sia strumentale) da chi si ritiene parte lesa, rischia di essere percepita come una sfida, a maggior ragione se viene messa in discussione la gerarchia sociale.
Il gioco esige una consapevolezza e una sensibilità notevoli, una capacità di interpretare e comunicare le intenzioni proprie e altrui sia nel caso in cui si vogliano evitare contrasti, sia quando si decide di sfidare un rivale o, ancora più importante, per chiedere il sostegno di altri partecipanti al gioco, siano essi parenti, amici o alleati. Quello dell’onore è un gioco sociale che sta alla base non solo delle imprese eroiche di singoli cavalieri, ma dell’intera vita politica medievale le cui sottigliezze e la cui importanza rischiano di sfuggire a noi uomini e donne del XXI secolo, nati e cresciuti in società più o meno capillarmente disciplinate e regolamentate dagli stati moderni. Nel mondo medievale, d’altronde, anche Dio e i santi avevano il proprio onore da difendere e, quando leso, ripristinare. Il conte trovatore Tebaldo IV di Champagne, verso l’anno 1200, nella canzone Seigneurs, sachiez in cui esortava i cavalieri francesi alla crociata, non faceva appello ad una qualche idea astratta di guerra santa ma alla necessità di vendicare l’onta che i Saraceni avevano inflitto a Dio quando il Saladino aveva riconquistato Gerusalemme nel 1187; coloro che avrebbero preferito restarsene a casa, «non amano Dio, né il bene, né l’onore, né la lode» (v. 9).
Va da sé: la natura di costrutti sociali di concetti come onore e rango li rende strumenti culturali estremamente flessibili, utili anche per giochi di potere tanto torbidi quanto raffinati. Attenzione però: ciò non significa affatto che i giocatori che partecipano a questa competizione senza fine siano protagonisti ipocriti di una finzione consapevole. L’onore e l’onta, binomio inscindibile, sono parte integrante dell’immaginario medievale e stanno alla base della pratica della vendetta, della guerra e più in generale dell’uso della forza. E attenzione a ritenerla una mentalità primitiva o arcaica: l’immaginario, la mentalità, oggi come allora, è ciò che tiene insieme tutto, nutre e fa agire l’essere umano, come scriveva il grande medievista Jacques Le Goff. E ciò è vero per chi è convinto che le dispute vadano risolte nei tribunali o nelle urne elettorali, quanto per chi accettava di dover sguainare la spada e giocarsi vita e status.
Daniele Battistelli
Nota dell’autore: la traduzione italiana dei testi in antico francese è stata in parte rivista dall’autore stesso.
Per approfondire:
CARDINI FRANCO, Onore, il Mulino, Bologna 2016.
GUIDA S. (a cura di), Canzoni di crociata, Pratiche editrice, Parma, 1992.
La canzone di Orlando, a cura C. Segre, R. Lo Cascio, M. Bensi, BUR, Milano 2015.
LE GOFF JACQUES, L’immaginario medievale, Roma-Bari, Laterza 1985.
MILLER WILLIAM I., Bloodtaking and Peacemaking. Feud, Law, and Society in Saga Iceland, Chicago University Press, Chicago 1990.
SMITH JULIA M. H., L’Europa dopo Roma. Una nuova storia culturale (500-1000), il Mulino, Bologna 2017.