Dante Alighieri, battezzato Durante, nacque a Firenze tra maggio e giugno del 1265 da una famiglia guelfa. La datazione è, tuttavia non sicura: questa è infatti ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell’Inferno, che comincia con il celeberrimo verso ‹‹Nel mezzo del cammin di nostra vita››. Di essere nato sotto il segno zodiacale dei Gemelli lo dice Dante stesso nel Paradiso: durante la salita all’Empireo, venutosi a trovare proprio in quella costellazione, prega i Gemelli di aiutarlo nell’ultimo impegnativo tratto della sua ascesa e ricorda come il sole fosse congiunto con tale costellazione nel momento in cui, per la prima volta, lui aveva respirato l’aria di Toscana: «quand’ io senti’ di prima l’aere tosco».

Quest’anno si festeggia l’anno dantesco (per la ricorrenza del 700 anni dalla morte del Sommo, avvenuta a Ravenna nel 1321), e si dovrebbe sempre ricordare che Dante e la sua “Comedìa” (da lui stesso così chiamata nella Lettera XIII a Cangrande della Scala) sono un patrimonio nazionale, e non solo dell’ambiente accademico. È proprio il poeta fiorentino a ricordarcelo con l’elemento più eloquente per riconoscere un uomo: la lingua (la “favella”, nella terminologia italiana medievale). Dante ha scritto la Divina Commedia in lingua italiana, quando l’Italia ancora non esisteva. Nel momento in cui Dante iniziò a comporre la Divina Commedia, il concetto di un’unità linguistica nazionale era già identificato nella sua mente, come si legge nel De Vulgari Eloquentia: in questo trattato linguistico – retorico (scritto in latino e quindi rivolto appositamente ai letterati dell’epoca) Dante ricerca quella lingua volgare (“vulgus”, in latino vuol dire popolo) adatta alla scrittura delle opere letterarie. La ricerca di questa lingua è fondamentale per comprendere il fine ultimo della Divina Commedia: il capolavoro dantesco narra dell’elemento più naturale nella vita degli uomini, che entra in contatto con loro sin dalla loro nascita, cioè l’Amore (da quello materno a quello di cuore).

Il De Vulgari Eloquentia è un’opera filosofica e dottrinaria composta da Dante negli stessi anni della stesura del Convivio (1303-1304). Il De Vulgari è appunto dedicato a un tema particolare: quello della lingua, e quindi delle strutture retoriche e della letteratura. Secondo la critica letteraria si può affermare che Dante abbia iniziato da questo testo la storia della lingua italiana, di cui egli racconta le vicende su un piano geografico, più che storico. Protagonista dell’opera è la lingua volgare, che viene definita dall’autore: cardinale, perché deve essere comune tra tutti gli abitanti della penisola; aulica, perché sia parlato anche nelle corti più nobili; curiale, perché le sue regole devono essere fissate dalla “Curia”, cioè l’insieme dei saggi e dei sapienti d’Italia e illustre, cioè quel volgare in grado di assumere i caratteri di lingua letteraria all’interno del variegato panorama linguistico italiano. Proprio per giustificare l’adozione del volgare e far sì che questa scelta venisse compresa dai suoi interlocutori, i letterati, Dante scrive il suo trattato in lingua latina, seguendo le regole più severe della trattatistica del suo tempo, in particolare quella retorica (Ars Dictaminis).

Rivolgendosi ad un pubblico selezionato di studiosi, Dante compone il suo trattato in latino, ma al tempo stesso sottolinea con forza il ruolo del volgare nella società medievale. L’opera si apre con un veloce excursus che traccia la storia della lingua a partire dall’episodio della Torre di Babele fino alla definizione di una regola grammaticale salda, come il latino che, in questa ottica, si tratterebbe di una lingua nata dopo i volgari nazionali, e funzionale alla comunicazione tra le diverse comunità. In seguito Dante divide le lingue europee in tre regioni: quella orientale-greca, quella settentrionale-germanica e quella meridionale, su cui poi si sofferma meglio. Quest’area viene a sua volta segmentata secondo la forma della particella affermativa: le lingue d’oc e d’oïl in Francia, la lingua dove il “sì suona”, cioè in Italia.

La ricerca di Dante, di una lingua italiana nazionale, fu lunga e complessa, proprio perché egli cercò una lingua, che sarà poi quella della Commedia, che sappia adattarsi a tutti gli usi e le necessità dei testi letterari. L’Alighieri allora, nel sedicesimo capitolo del primo libro, si serve dell’immagine della “pantera odorosa”: il Poeta parla di “una vera e propria caccia” da lui intrapresa per cercare il rarissimo animale, dietro la cui immagine, tramite ovviamente l’allegoria, accennava alla lingua italiana, ancora non esistente. Dante voleva che la nostra bella lingua fosse come una pantera perché, secondo le raffigurazioni dei bestiari medievali, non solo era rarissima, ma emanava dalla bocca un soavissimo profumo (veniva definita infatti aulente o redolens, in latino), che attirava tutti gli altri animali e li spingeva ad avvicinarsi al feroce felino. Perciò Dante non propone un modello formato dalle parti migliori delle varie parlate italiane, ma riconosce in ognuna le potenzialità di identificarsi con il volgare illustre, a patto di liberarsi dai limiti provinciali, e diventare “lingua nazionale”.

 

Martina Michelangeli x Medievaleggiando

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Written by : Redazione

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