Nessuno potrebbe mai immaginare Dante Alighieri su un cavallo da guerra, in prima linea. Anzi uno dei 150 cavalieri di una élite speciale, i cosiddetti «feditori», destinati ad aprire lo scontro: i primi a partire alla carica se il proprio esercito avesse deciso di attaccare.
Il giovane poeta ha 24 anni. È sabato 11 giugno 1289, festa di San Barnaba. L’esercito fiorentino è uscito dalla città nove giorni prima in pompa magna al suono delle campane per invadere Arezzo. Ora è a metà strada tra Firenze e la città nemica. Dai 1300 ai 1600 cavalieri, i milites, per non contare 10.000 fanti a piedi, i pedites, armati di lancia o di arco o balestra: a quel tempo un esercito impressionante.
Siamo nei pressi del castello di Poppi, a cinquanta chilometri da Firenze, in una pianura chiamata Campaldino. La città di Arezzo nel 1289 è una città prospera e fiorente e batte propria moneta. A capo della città c’è il vescovo settantenne Guglielmo degli Ubertini, il quale dopo un iniziale atteggiamento ambiguo, più per interessi che per personale convinzione, appoggia la causa ghibellina. Nel resto della Toscana i guelfi, che nell’Italia centrale stanno raggiungendo la completa egemonia, si sono ormai alleati con Firenze.
Dobbiamo considerare che nell’Italia dei comuni le città esercitano, di fatto, il potere in piena autonomia: fanno leggi, giudicano i cittadini, spesso coniano moneta propria, comportandosi come vere e proprie città-Stato, che per interessi economici e per egemonia territoriale si scontrano spesso tra di loro. E a scontrarsi sono anche due visioni politiche diverse. La prima vuole che in Italia un potere monarchico dovesse imporre un ordine, un controllo centrale. Un ruolo che in Italia impersona già l’imperatore tedesco, che tuttavia lascia un buon grado di autonomia ai regni della penisola. Questa fazione politica è chiamata Ghibellina.
La seconda visione politica, sposata da molte grosse città del nord, tra cui Milano e Firenze, considerando l’autonomia politica cittadina una conquista da difendere, teme il rafforzamento di un potere centrale che in qualche modo possa minare questa indipendenza, cercando, in questo, appoggio nel papato, che si dimostra favorevole a questa nuova condizione politica, proponendosi addirittura come finanziatore di quelle città che temono il ritorno dell’egemonia imperiale tedesca. Questa fazione politica è chiamata Guelfa.
Nella pianura di Campaldino l’esercito ghibellino di Arezzo è schierato ad attendere i guelfi fiorentini, che decidono di aspettare la prima mossa degli aretini. Questi ultimi partono all’attacco con trecento feditori e seguiti da ottocento cavalieri sconquassano l’esercito fiorentino, che in un primo momento “sbarattato e rotto” è messo in fuga, come testimonia Leonardo Bruni, biografo di Dante.
Segue una mischia furibonda, oscurata da nuvole di polvere e frecce di balestre, durante la quale l’esercito di Dante prende il sopravvento, per poi mettere in fuga e inseguire il nemico fin sotto le mura della sua città.
Sicuramente non un cavaliere “di professione”. Tuttavia, a Firenze chiunque fosse stato abbastanza ricco, disposto a mantenere un cavallo da guerra e a pagarsi le armi, poteva aspirare a diventare un “cavaliere di corredo”, come si diceva. E Dante sicuramente sosteneva il costo del cavallo e dell’equipaggiamento, dimostrando in tal modo la condizione “agiata” della sua famiglia. Era uno di quei “cittadini con cavallate”, quindi, perché ne possedeva uno e ne sosteneva il costo. Ma i “cittadini con cavallate”, in caso di guerra, avevano il dovere di fornire il proprio cavallo ai cavalieri impegnati in combattimento, se avessero scelto di non partecipare personalmente alla battaglia. Dante, invece, scelse di montare personalmente il suo cavallo, piuttosto che essere costretto dal Comune a fornirlo a qualcun altro.
Dunque, il grande studioso, colui che abbiamo sempre immaginato consumare il suo tempo leggendo e scrivendo voracemente, pallido, illuminato solo dalla luce della sua lampada, non ha vissuto fuori dal mondo. Ha combattuto. Ha provato paura mentre si calava l’elmo sulla testa prima di imbracciare la sua lancia. Ha mangiato la polvere del campo di battaglia e si è imbrattato di sangue. E a dimostrarlo, oltre ad alcune sue lettere andate perdute, ma riportate dai suoi biografi, ci viene in soccorso il canto XXII dell’Inferno:
«Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra» (Inf. XXII 1-6).
I primi tre versi si riferiscono sicuramente ad alcuni momenti della battaglia di Campaldino, che Dante rievoca da testimone oculare, mentre gli ultimi tre fanno riferimento alle scorrerie dei saccheggiatori (gualdane) nel territorio di Arezzo, compiute dall’esercito fiorentino dopo la battaglia campale, che sotto le mura della città presa d’assedio, organizza, in spregio degli aretini, giostre e i palii.
Addirittura, nel canto XXI dell’Inferno, Dante fa riferimento a un altro episodio bellico occorso due mesi dopo la battaglia di Campaldino che lo vede sicuramente protagonista.
Circondato dai diavoli ricorre a un suggestivo paragone per cercare di dare il senso della paura che ha provato:
«Così vid’io già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti» (Inf. XXI 94-96).
Siamo nel 16 agosto del 1289 presso il Castello di Caprona, contro il quale Firenze manda “quattrocento cavalieri di cavallate, e duemila pedoni” in appoggio all’esercito di Lucca, che sta invadendo il territorio di Pisa.
Dopo un assedio di otto giorni, che vede lo scontro dell’esercito della lega guelfa di Toscana (Lucchesi e Fiorentini) contro le truppe ghibelline di Pisa, rette da Guido di Montefeltro, il castello capitola.
Dante sicuramente era uno di quei quattrocento cavalieri in quota all’esercito della lega guelfa, poiché i versi descrivono la resa di Caprona e i soldati uscire dopo aver ricevuto garanzia di aver salva la vita, come se composti da un testimone oculare.
E troviamo ancora riferimenti alla guerra nel canto V del Purgatorio. Qui Dante incontra Buonconte da Montefeltro, uno dei capitani aretini uccisi quel giorno a Campaldino, del cui corpo si persero le tracce. Curioso di sapere come sia morto e cosa sia successo al suo cadavere, Dante ascolta il racconto di Buonconte che ricorda di essere stato ferito alla gola e di aver vagato fra le montagne, finché dopo il tramonto la nebbia ricoprì quella zona, per poi scatenarsi un temporale, che rigonfiando i torrenti di acqua, travolsero il corpo esanime di Buonconte, trascinandolo nell’Arno.
Un uomo del suo tempo, quindi, che nella prima parte della sua vita, oltre ai suoi studi, impegnato politicamente e militarmente, viveva la sua città. Fino a quel fatidico anno 1300. L’anno della svolta, secondo la suggestiva tesi di Alessandro Barbero, secondo il quale il sommo poeta, raggiunta la carica politica cittadina più alta, il traguardo più alto al quale lo aveva portato la sua aspirazione politica: diventando Priore di Firenze, scopre che “nel mezzo del cammin della sua vita” si stava dannando l’anima perché impantanato e sedotto dalla “selva oscura” della politica e del potere.
Orlando Tarallo
Per approfondire:
BARBERO ALESSANDRO, 1289. La battaglia di Campaldino, Laterza, Bari-Roma 2008
DIACCIATI SILVIA, Dante a Campaldino, in “Le tre corone”, 6 (2019), pp. 11-26
TABACCO GIOVANNI, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze tra XII e XIII secolo, in “Studi medievali”, s. III, 17 (1976), pp. 41-79
VILLANI FRANCESCO, De vita et moribus Dantis poete comicis insignis, a cura di M. Berté, in Nuova edizione commentata delle opere di Dante, vol. VII, t. IV: Le vite di Dante dal XIV al XVI secolo. Iconografia dantesca, a cura di M. Berté, M. Fiorilla, S. Chiodo e I. Valente, Roma 2017.