Abbiamo avuto il piacere di intervistare il dott. Antonio Musarra, docente di Storia Medievale presso Sapienza Università di Roma. Classe 1983, è uno dei più noti rappresentanti della nuova generazione di ricercatori che si sta affacciando nelle nostre Università. Il suo campo di studi è molto ampio e possiamo dire che il mare sia il denominatore comune degli argomenti che affronta, infatti si occupa della storia di Genova nel Medioevo, delle città di mare, le cosiddette “repubbliche marinare”, degli stati crociati e più in generale delle vicende del mar Mediterraneo e della navigazione.
Buongiorno professore, innanzitutto vogliamo ringraziarla per averci concesso questa intervista. Entriamo subito nel merito con una domanda impegnativa: perché ha scelto di studiare Storia Medievale? E cosa la colpisce di questo periodo?
Buongiorno a voi e grazie, innanzitutto. Debbo dire che la passione per la storia mi accompagna da molto tempo, sin da quando ero bambino. Inizialmente, non era il medioevo al centro dei miei pensieri, ma il mondo classico, e, anzi, il mondo antico in senso lato, comprendendo l’Egitto faraonico e le civiltà vicino e medio-orientali. Merito della presenza in casa di alcuni volumi. Cito solo Ceram, Civiltà sepolte, per intenderci; o i diari di Schiliemann, che avrò letto non so quante volte nell’edizione economica BUR. Ricordo ancora quando la prof. ssa di storia di “quarta ginnasio”, colpita da questa mia passione, mi lasciò tenere una lezione sull’Egitto. I miei compagni – chiedete loro: confermeranno – mi videro arrivare con dei larghi quadernoni, in cui avevo elencato dinastia dopo dinastia nomi, fatti, date riguardanti ogni regnante, uno per uno… Dopodiché, venne la storia greca, e poi quella romana, e giunsero altri quadernoni. Dei miei anni universitari ricordo, invece, con estremo piacere, il 30 e lode guadagnato sul mitico Musti (chi l’ha detto che gli esami passati alla leggera siano i più soddisfacenti?). Davvero sudato! Allora, però, avevo già iniziato a focalizzare lo sguardo sul medioevo. O, meglio, a interessarmi era inizialmente il tardo-antico: la storia conciliare, in particolar modo. Al Due-Trecento sono arrivato solo di recente, dopo un lungo itinerario (e molti quadernoni: perché il nozionismo, sotto i 25 – diciamo – è importante; poi, deve iniziare la rielaborazione e la messa in discussione). Credo che la scelta di dedicare la maggior parte delle mie energie al medioevo sia stata dettata da un insieme di fattori: non posso non ricordare la lettura, a 14 anni, di due romanzi, a loro modo, antitetici: L’avventura di un povero crociato, di Franco Cardini, e Il nome della rosa, di Umberto Eco – le cose che si leggono a quell’età segnano la vita –; quindi, verso i 15 o i 16, della mitica Storia delle crociate di sir Steven Runciman e della Storia dell’Impero bizantino dell’Ostrogorski, letteralmente divorati. Con tanto di stesura di quadernoni riassuntivi a tergo. Questa cosa di appuntare date, cronologie, fatti può apparire banale, e anche, per certi versi, ingenua. A me ha fornito una grande cornice: quella cultura generale che, oggi, manca, solo padroneggiando la quale è possibile – credo – andare oltre e discorrere, dunque, di storiografia e problemi. Ma la tendenza alla narrazione m’è rimasta, e ne vado fiero. A ogni modo, quelle letture tornarono a galla nel momento in cui scoprii il medioevo all’università. Legatissimo al tardo-antico – e lo sono ancora oggi! –, ne rimasi affascinato. Ebbi docenti capaci di appassionarmi, e il resto venne da sé. Oggi, posso dire di non aver ancora derogato al mio periodo d’elezione: ma so bene d’essere una persona incostante… Ammiro coloro che riescono a mantenersi fedeli a un singolo argomento (bontà loro). Io sono portato a spaziare e a ragionare per grandi quadri. Di fatto, ho cercato a lungo un filo conduttore: e l’ho trovato solo di recente, guardando al percorso fatto.
Come abbiamo detto i suoi studi vertono sulla storia del Mediterraneo, un mare che ha un passato e un presente segnato da commerci e morte. A suo giudizio ha ancora valore raccontare la sua storia e può aiutarci a comprendere meglio il presente?
Vi rispondo mediante i versi immortali di Montale:
«La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta»
Io non credo che la storia sia magistra di alcunché; nel senso che non credo si debba associare alla storia uno scopo utilitaristico. Il rischio è ch’essa diventi, constatatane la sostanziale inutilità nella vita di tutti i giorni – quella di chi si guadagna con fatica il pane quotidiano –, una sorta di divertissement; che la si legga, cioè, per passatempo e mero intrattenimento. La storia è importate perché è patrimonio dell’umanità ed il suo studio non serve per evitare di compiere, oggi, gli errori del passato, dato che ha un valore intrinseco di per sé. Credo non vi sia nemmeno bisogno di spiegare il motivo. Certamente, l’approfondimento d’una storia complessa come quella che ha il proprio baricentro nel Mediterraneo – questo è il mio caso – facilita la comprensione di determinati fenomeni, preparando l’uomo di oggi ad avere maggiore coscienza del presente. Questo mi sentirei di affermarlo. La storia del Mediterraneo è estremamente complessa. E’ una storia di contrapposizioni ma anche di unità, come hanno spiegato bene grandi storici come Roberto Sabatino Loperz e Fernand Braudel. E’ una storia che si comprende adottando quello che per uno storico è un atteggiamento fondamentale: lo sguardo antropologico; evitando il giudizio ma cercando la comprensione, come diceva Bloch nell’Apologia della storia. In questo modo è possibile comprendere fenomeni come la crociata e capire perché, al contempo, era possibile sviluppare contatti stretti tra le opposte sponde del mare dando avvio a processi di acculturazione che pesano effettivamente sull’oggi. La storia, insomma, è un fondamentale volano per adottare uno sguardo più complesso sulla realtà.
Genova è la sua città; sembra scontato che i suoi studi si concentrino su di essa, ma siamo certi che abbia intrapreso questa strada non per convenienza bensì per un profondo legame che ha con essa. Quindi, perché è ancora importante studiare una delle più prolifiche città di mare?
Roberto Sabatino Lopez ha scritto che i figli dei professori nascono dove i padri ottengono l’ultima cattedra. Io sono figlio di genitori siciliani, e con la Sicilia ho un forte legame, ma sono nato a Genova, dove mio padre e mia madre hanno ottenuto il loro lavoro. Detto questo, non diversamente da Lopez, ho fatto di tutto per meritarmi questa nascita genovese, studiandone la storia. Una storia che permette immediatamente di ragionare in maniera globale. A differenza di altre storie locali, quella di Genova è, sin dal X-XI secolo, una storia mediterranea; una storia che non si può comprendere se non si guarda al Mediterraneo. Come diceva Fernand Braudel: «I Genovesi li trovi dappertutto». Dunque, i genovesi sono stati per me il volano per studiare il Mediterraneo. In questi anni, ho cercato di adottare la stessa visione che Lopez consigliava ai suoi studenti: amalgamare la prospettiva macrostorica con quella microstoria: «Fare macrostoria con microstoria per materia prima». Dunque, una grande attenzione al documento, alla fonte – anche minuta –, attraverso la quale, però, comprendere fenomeni di vasta portata. Perché altrimenti, il lavoro fatto rimane fine a sé stesso. Le fonti genovesi permettono questo. Si tratta di fonti importanti, oltre che molto peculiari nel panorama della penisola. Di fatto, sono partito con lo studio della cronachistica genovese per passare, poi, contestualmente, a studiare la presenza genovese nel mediterraneo orientale e i rapporti con altre città; in primis, Venezia e Pisa. Quindi, i commerci nel Levante mediterraneo, e la crociata.
Continuando a parlare di Genova, ricordiamo che lei ha scritto un saggio – Il Grifo e il Leone, Laterza 2020 – dedicato allo scontro di questa con Venezia, consumatosi tra il 1256 ed il 1406. Anche se possiamo già intuire la risposta, vorremmo chiederle: secondo lei chi ha trionfato e perché?
Tra i due litiganti il terzo gode. I veri vincitori di questa partita, che, per certi momenti, diventa una sorta di “guerra mondiale mediterranea”, e che vede coinvolti anche l’Impero bizantino e la corona catalano-aragonese, sono gli ottomani; i quali seppero sfruttare l’occasione per mettere piede in Europa (già nel 1354, con l’attraversamento dei Dardanelli). Petrarca aveva intuito che la guerra tra Genova e Venezia sarebbe andata a detrimento della penisola, consentendo allo straniero di mettere piede in Italia. Ma lui pensava soprattutto all’Aragona. Del resto, Genova e Venezia combattevano da tempo. Il conflitto prese le mosse all’indomani della presa di Costantinopoli da parte di crociati e veneziani (1204), trascinandosi nel corso del tempo, prima con i metodi della guerra di corsa; poi, sfociando in guerra aperta.
Genova è la città che ha dato i natali a Cristoforo Colombo, un uomo che ha compiuto un’impresa straordinaria. Secondo lei dove risiede l’eccezionalità di quest’uomo? E quale fu il fattore che gli permise di poter navigare verso terre (s)conosciute?
L’eccezionalità di Colombo sta nell’aver sintetizzato l’esperienza secolare di due marinerie differenti: quella mediterranea e quella nordica. Questo, perché egli visse a lungo in quello che Pierre Chaunu ha chiamato un “Mediterraneo atlantico”: le coste portoghesi e le isole prospicienti. La sua esperienza portoghese fu fondamentale per portare a sintesi queste conoscenze. Tuttavia, non bisogna dimenticare che Colombo era genovese (fidatevi!). Non si può capire il navigatore senza guardare al bagaglio di esperienze marinare che i genovesi, ma, possiamo dire, gli “italiani” in genere, gli consegnarono. La sua eccezionalità fu quella di mettere in atto un progetto che, probabilmente, era nell’animo di molti. La sicurezza palesata nella frequentazione delle isole di questo “Mediterraneo atlantico” ne permise l’impresa.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo a una specie di damnatio memoriae nei confronti del navigatore genovese, con l’abbattimento delle sue statue e il rifiuto di riconoscere il contributo dato al progresso della tecnica; sottolineando, invece, il fatto ch’egli fosse uno schiavista. Secondo lei, perché stiamo assistendo a tutto questo? Si sta sbagliando o no nel riconsiderare la figura di Colombo in questi termini?
“Scoperta” e “conquista” sono facce della stessa medaglia. Lo sappiamo bene, almeno da quando Tzvetan Todorov pubblicò, nel lontano 1982, dieci anni prima dell’anniversario colombiano, il suo La conquista dell’America: il problema dell’altro. Credo che oggi, però, si sia andati troppo oltre con l’interpretazione. Fino a poco tempo fa ci si contendeva i natali di Colombo. Abbiamo avuto un Colombo catalano, un Colombo polacco, un Colombo ebreo, un colombo figlio segreto del papa, ecc. Tutto ciò ha lasciato il passo al tentativo di farne l’archetipo dell’uomo bianco schiavista e colonizzatore, dipingendolo come un genocida. In realtà, con tutto ciò, egli ebbe poco a che fare; voglio dire: a malapena si rese conto d’essere arrivato in un nuovo continente. Noi sappiamo che Colombo intendeva raggiungere l’Asia e le sue ricchezze per stringere con il Gran Khan mongolo un’alleanza e scacciare i Mamelucchi dall’Egitto. Il tutto finalizzato alla riconquista di Gerusalemme. O, almeno, questo è quanto il nostro dichiara. Possiamo crederci o no. Senz’altro, dai suoi scritti emerge una componente religiosa non indifferente, e poco importa se nel 1492 il Khan non c’era più da un pezzo: con l’avvento dei Ming, nel 1368, la Cina s’era chiusa in sé stessa e nessuna notizia arrivava più in Europa. Certo, le ragioni economiche del viaggio non vanno dimenticate. Io non credo che si avvertissero allora forti contrasti fra tali dimensioni. Non come oggi, almeno. Il nostro si macchiò sicuramente di atrocità, ma non in maniera sistematica. Possiamo accusarlo d’aver operato dei trattenimenti forzosi nei confronti dei nativi e di aver dato avvio alla tratta di schiavi; ma tutto ciò era perfettamente consono ai tempi. Genovesi e veneziani erano schiavisti da secoli, e la schiavitù esisteva anche oltreoceano. Allora, anzi, il volto della schiavitù europea poteva perfino essere tollerabile (intendiamoci: non lo è affatto col nostro metro di giudizio): non dobbiamo immaginarci gli schiavi delle piantagioni d’età moderna. Si trattava, spesso, di servi domestici o utilizzati nei campi. Senz’altro, morto Colombo, i conquistadores perpetreranno numerosi disfatti ai danni dei nativi, denunciati a chiare lettere – come sappiamo – da Bartolomé de Las Casas, che, tuttavia, salvava Colombo. Il vero genocidio fu compiuto, però, molto tempo dopo, tra XVIII e XIX secolo, quando, ormai, i lumi avevano “rallegrato” la ragione dell’Umanità. Da chi? Dagli statunitensi, che, con metodi brutali e sistematici, avrebbero provocato la moria di centinaia di migliaia d’indiani d’America. Oggi, queste proteste hanno un significato diverso. Dietro il politically correct si nascondono le difficoltà di un paese che conosce immense sperequazioni di natura economica e sociale, convogliate in episodi di violenza: io credo con il beneplacito delle autorità. E’ meglio abbattere una statua che dare fuoco al parlamento.
Cambiamo argomento e parliamo dei suoi studi sulle crociate e gli stati crociati, come mai ha deciso di intraprendere anche questa strada? E soprattutto è ancora importante soffermarsi a studiarle?
Allo studio della crociata sono arrivato attraverso Genova, la quale è una delle protagoniste della prima spedizione che definiamo in questa maniera. La mia tesi dottorale, discussa a San Marino nel 2012, era incentrata sul ruolo avuto dai genovesi nel movimento crociato; soprattutto, nell’ultima fase della presenza latina in Terrasanta, con la caduta di Acri nel 1291. In quel lavoro offrii un panorama che storiograficamente potremmo definire di storia totale, ponendo al centro il tema della crociata, analizzato sotto molteplici punti di vista: bellico, economico, politico, culturale, religioso. La crociata, insomma, aveva a che fare con la vita della gente da molteplici punti di vista. Mi accorsi, ad esempio, di come i principali mutamenti di regime interni a Genova ebbero luogo mentre metà della popolazione non era presente in città. Banale, si dirà; ma tale elemento non era mai stato notato. Insomma, di qui è nato un vero e proprio filone di ricerca che mi vede tutt’ora impegnato. Con un obiettivo: quello di restituire alla crociata la sua dimensione religiosa, che non è sovrastrutturale ma costitutiva e fondante; e ciò, sulla scia degli studi di Jonathan Riley Smith e Franco Cardini.
Accanto alla sua attività di docenza e studio, lei accosta anche quella di divulgazione; infatti, ricordiamo che è spesso presente al Festival del Medioevo di Gubbio e non solo. Perché ritiene importante la divulgazione storica? E cosa le trasmette comunicare ciò che studia a un pubblico di “non addetti”?
La divulgazione o meglio la “disseminazione” è un dovere sociale, a cui lo storico non deve rinunciare, pena un crescente disinteresse nei confronti della materia. Io credo che sia assolutamente doveroso comunicare a un pubblico più vasto possibile i risultati delle nostre ricerche, che non possono rimanere relegate all’interno di riviste o atti di convegno. Il sapere non è elitario. O è di tutti o non è. Bisogna, dunque, che chi ha il privilegio di fare questo mestiere, oltre a fare ricerca, a indirizzare ricerche altrui e a tenere lezione sappia anche dialogare con il grande pubblico, che nella vita fa dell’altro. Il mezzo è la divulgazione. Debbo precisare, però: non esiste un’alta e una bassa divulgazione; esiste solo una buona e una cattiva divulgazione. Rispetto alla ricerca, questa si differenzia nel presentare al pubblico un “sapere certificato”, laddove il simposio o la monografia scientifica prevedono, invece, che al collega si palesi anche il ragionamento che sottostà alla tale affermazione. Attenzione, però: il percorso presentato al grande pubblico va emendato del ragionamento critico, ma non della critica! Alcuni tra i più grandi classici della storia in sé non hanno note; il che è tutto dire. Per fare tutto ciò è necessario prepararsi a dovere. Bisogna che la propria scrittura sia efficace. Si può imparare, naturalmente. Personalmente, ho sempre fatta mia la grande aspirazione di Roberto Lopez: il libro di storia come opera d’arte. Un obiettivo velleitario ma affascinante. La divulgazione è il volano attraverso il quale la nostra materia potrà avere un futuro in questo nostro mondo complicato; solo facendo comprendere la bellezza della storia possiamo sperare di tornare a essere una voce importante all’interno del panorama culturale italiano, e non solo.
Ora le sottoponiamo un’altra domanda impegnativa: a suo parere perché è ancora utile studiare la Storia e in particolare il Medioevo? Se la sente anche di dare un consiglio ai giovani che decidono d’intraprendere questa tortuosa strada?
Fate gli ingegneri, che si guadagna di più… A parte gli scherzi… la scelta di un corso universitario deve essere dettata dalla passione. Non fatevi ingannare. O ve ne pentirete. Il consiglio è quello di farsi guidare dai propri interessi specifici, di non concentrarsi su poche tematiche ma di spaziare; la specializzazione è importante, ma quella arriverà nel tempo. Inizialmente, bisogna mostrarsi malleabili. Avere più passioni è la condizione ideale. Il trucco è adottare uno sguardo appassionato sulla realtà. Per poi trovare il proprio ubi consistam. Ma è meglio averne diversi. Dopodiché, la storia è utile – e quella medievale lo è ancora di più – nel momento in cui è in grado di allargare la ragione. Come ho detto, lungi da me ogni forma di utilitarismo. Dobbiamo tornare a fornire quadri globali ed onnicomprensivi, che saranno necessariamente soggettivi, dato che ciascuno storico ha la propria visione, ma che possano fornire, però, interpretazioni del reale.
Concludiamo l’intervista con una domanda semplice: ci può dare qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?
I progetti futuri sono molti. Sto lavorando a una storia della navigazione nel Mediterraneo, che uscirà per la casa editrice il Mulino nei primi mesi dell’anno prossimo. Il titolo è significativo: Medioevo marinaro. Al contempo ho concluso un lavoro dedicato a un confronto tra due ordini religiosi: Templari e Francescani, che operarono in Terrasanta, che ho provocatoriamente intitolato Gli ultimi crociati, e che uscirà per la Salerno editrice. Non si tratta di lavori unicamente divulgativi. Nel primo caso, lo sforzo di sintesi va a coprire un vuoto evidente, cercando di modificare la narrazione classica d’un Medioevo terrigeno, piuttosto fuorviante. Il secondo volume possiede, invece, proposte interpretative interessanti, a partire da due ordini solo apparentemente antitetici. A ogni modo, sul versante strettamente scientifico ho in corso di stesura una monografia dedicata a Genova nel delicato passaggio fra XIII e XIV secolo, centrata sullo studio della politica cittadina a partire da una prospettiva sistemico-relazionale: si tratterà, dunque, di qualcosa di diverso rispetto all’approccio prevalente, di natura istituzionale. Sto lavorando, inoltre, a un manuale dedicato alla storia delle crociate e a un saggio sulla guerra di corsa e la pirateria nel Mediterraneo medievale. Ho in ballo, altresì, un paio di progetti scientifici di lungo periodo, incentrati, il primo, sul rapporto tra crociata, riforma della Chiesa e autogoverno cittadino – tre temi strettamente connessi; tre storiografie distanti tra loro, da far dialogare –, il secondo, sul rapporto tra la crisi del Trecento e la navigazione mediterranea. Un progetto, questo, che ha come titolo Sailing beyond the crisis, che vorrei spendermi in ambito internazionale. Un progetto ulteriore mi vede, invece, attivo in Sapienza, grazie all’imminente scavo archeologico che riguarderà la basilica del Santo Sepolcro. Sto coordinando un Laboratorio medievistico dedicato al Santo Sepolcro, che sta occupandosi di raccogliere e studiare le innumerevoli testimonianze relative al complesso accatastatesi nel corso dei secoli. Ce n’è per i beati.
Andrea Feliziani
Giulia Panzanelli