Oggi siamo in presenza del Professor Aldo Settia, esperto di storia militare medievale. Originario di Albugnano, piccolo villaggio collinare dell’astigiano, è stato per alcuni anni membro delle forze armate per poi iniziare la sua lunga e proficua carriera come studioso di Medioevo nell’Università di Torino e in quella di Pavia. I suoi iniziali interessi sono stati rivolti verso la storia degli insediamenti tardoantichi e medievali e, successivamente, si è concentrato sugli aspetti militari del Medioevo. Numerosi sono stati i suoi saggi come Battaglie medievali (Il Mulino, 2020), Guerre ed eserciti nel Medioevo (Il Mulino 2018) curato insieme al Professore Paolo Grillo, e poi Castelli medievali (Il Mulino 2017), De Re militari. Pratica e teorie della guerra medievale (Viella 2008), Tecniche e spazi della guerra medievale (Viella 2006), il famosissimo Rapine Assedi e battaglie, la guerra nel Medioevo (Laterza 2002), De Re militari. Pratica e teorie della guerra medievale (Viella 2008) e Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle città (CLUEB, 1993).

Intanto ringraziamo il professore per averci concesso parte del suo tempo. Vorremmo iniziare con una domanda di rito: come nasce il suo interesse per il Medioevo e cosa l’ha spinta a interessarsi soprattutto dell’aspetto militare?

Avevo, per così dire, il medioevo in casa perché sul territorio di Albugnano esiste la chiesa romanico-gotica di S. Maria di Vezzolano (meta turistica non solo locale) che sin dall’infanzia sollecitava fantasie medievali; ad essa si collegò in seguito la lettura del romanzo per ragazzi di Olga Visentini L’ardito del conte verde, ambientato nel Trecento, che per spirito di imitazione mi spinse, verso i 15 anni, a mettere in cantiere un analogo racconto destinato nei miei desideri a costituire la trama di un “cineromanzo” da pubblicare sul giornale “Il Vittorioso”. Il protagonista era un ragazzo che, cresciuto come orfano dai canonici di Vezzolano, ritrovava il genitore dopo avere vissuto adeguate avventure alla corte del marchese di Monferrato Teodoro II, nella compagnia di ventura di Facino Cane e vendicato il saccheggio del castello di Albugnano perpetrata nel 1401 dai mercenari del principe di Acaia. Racconto mai portato a termine ma che contribuì a tenere vivo per anni l’interesse per l’epoca in cui la vicenda avrebbe dovuto svolgersi. Dopo aver trascorso un non breve periodo, coincidente con i momenti più acuti della guerra fredda, battendo a macchina i piani di difesa contro la temuta invasione da parte del blocco sovietico redatti dall’Ufficio Operazioni del Comando designato 3^ Armata (che fortunatamente non ebbero occasione di essere applicati) le suggestioni adolescenziali, rimaste a lungo latenti, ebbero modo di riemergere attraverso letture che richiamavano gli antichi stimoli medievaleggianti. Dall’insieme delle precedenti esperienze, in una successiva fase dell’esistenza nacque l’interesse di conoscere (anche) sentimenti, atteggiamenti, comportamenti e mezzi in dotazione dei “commilitoni” che nei secoli medievali erano vissuti in condizioni in certo modo analoghe alle mie.

Guardando i vari media a nostra disposizione e le piattaforme social, notiamo che nella nostra contemporaneità c’è – fortunatamente – una certa disaffezione alla guerra. Le nuove generazioni non sono più abituate a immaginarla, a concepirla. Quando si scatena un evento bellico di qualche tipo lo si percepisce, a ragione, con emotività, mettendo troppo spesso da parte tutti quei ragionamenti che portano a contestualizzare l’evento. Potrebbe dirci, secondo lei,  come veniva quindi percepita dalle “masse” la guerra nel mondo medievale? C’erano delle “manifestazioni di piazza” come oggi? Possiamo quindi azzardare dei parallelismi con il presente?

Parlare di “masse del mondo medievale” non ha in questo caso molto senso; occorre infatti tenere presente che il cosiddetto medioevo dura la bellezza di mille anni, e perciò la domanda dovrebbe essere formulata distinguendo i secoli e i luoghi al quali ci si vuole riferire. Manifestare in piazza contro la guerra presuppone infatti che ci sia un’autorità desiderosa di guerra e una popolazione organizzata e cosciente che intenda respingere tale desiderio, situazione ben difficilmente riscontrabile in un “mondo medievale”, genericamente inteso, in cui la guerra, sempre possibile e incombente, era percepita non tanto come decisione umana ma come una specie di disgrazia naturale contro la quale si poteva invocare solo l’intervento divino, tendenza che si riassume nella nota giaculatoria “a fame, peste et bello libera nos Domine”.

Dopo lunghi ed estenuanti periodi di gravi e diffuse violenze è però possibile che si manifestino, insieme con il desiderio di pace e di tranquillità, anche crisi di coscienza da parte dei violenti. Così avvenne, per esempio, nell’Italia centrosettentrionale al tempo di Federico II con il movimento detto dell’Alleluia, massima espressione spontanea e collettiva di “specialisti della pace” contro le lotte di fazione e la generalizzata insicurezza da esse provocata, movimento sul quale ha scritto Antonio Rigon in Desiderio di pace e crisi di coscienza nell’età di Federico II nel volume Federico II e la civiltà comunale nell’Italia del nord (a cura di C.D. Fonseca e R. Crotti, Roma, De Luca 1999). E’ meglio comunque astenersi dal cercare avventurosi parallelismi con il presente.

Il mondo bellico medievale è assai variegato, passando dagli assedi alla cosiddetta guerra di rapina. Potrebbe indicarci in sintesi quali fossero le principali strategie di guerra adottate nel Medioevo e se si faceva caso agli aspetti logistici?

Per molto tempo la storiografia militare, vista in funzione “didattica”, ha in generale ritenuto che, rispetto all’antichità, le guerre medievali si risolvessero in semplici disordinate zuffe dietro alle quali non c’era alcuna capacità strategica; il medioevo era quindi considerato un’epoca che, non solo non aveva prodotto alcun Annibale, Scipione o Cesare dai quali i moderni potessero trarre insegnamenti, ma in cui le azioni era condotte con assoluta e irreparabile inefficienza da eserciti piccoli, mobilitabili solo per tempi brevi e quindi necessariamente indisciplinati. Tale generico giudizio complessivo, è stato in seguito rivisto tenendo anche qui conto dei tempi e dei luoghi: anche quello che a prima vista può apparire come semplice esercizio di rapina fine a se stessa ha in realtà finalità strategiche in quanto tende a indebolire economicamente il nemico e indurlo così alla resa. Si è appurato poi che gli eserciti carolingi erano capaci di manovre a tenaglia compiute marciando separati e combattendo uniti; i comuni italiani riservavano da parte loro grande cura agli aspetti logistici, come ha messo in evidenza Fabio Bargigia studiando Gli eserciti nell’Italia comunale. Organizzazione e logistica (1180-1320) (Milano, Unicopli, 2010). Quella che si usa definire “arte militare” fu condotta a grande perfezione dai condottieri italiani del ‘400 tanto da essere allora ammirata e imitata in tutta l’Europa.

A questo punto dell’intervista vorremmo poi porle una domanda sul metodo. Spesso si legge che le nuove generazioni fanno fatica ad appassionarsi alla Storia. Secondo lei prodotti come film e videogiochi, che innegabilmente hanno influenzato la visione della guerra medievale da parte del pubblico non specialista, potrebbero essere degli strumenti utili per parlare ai giovani di guerra e di Medioevo? 

Quando si parla di giovani e di storia (fatte s’intende le debite eccezioni) occorrerebbe tenere presente che il detto di Robert Baden Powell “la storia è uno sport per l’età adulta” è qualcosa di più che una battuta. Le ricostruzioni cinematografiche e i videogiochi (che francamente non mi sono familiari) vanno valutati solo per il loro valore ludico, non diversamente dalle sfilate in costume ritenuto “medievale” e dalle rievocazioni di assedi e battaglie organizzate solo per soddisfare il gusto dei partecipanti di travestirsi in modo carnevalesco e per offrire colorati spettacoli a un pubblico per lo più digiuno di scrupoli filologici. Sono invece in genere di qualche utilità gli accurati disegni ricostruttivi a colori in cui sono specializzati certi editori inglesi, ma dopotutto non trovo così indispensabile che “i giovani”, genericamente intesi, debbano essere istruiti sul combattimento medievale che è essenzialmente cosa da specialisti. A proposito di film “medievali”, specialmente inglesi, chi sia interessato può leggere con profitto Le troppe sviste di sir Scott, in appendice al libro di M. Meschini, Assedi medievali, supplemento a “Il Giornale” (Milano 2006).

Molto spesso nei film di ambientazione medievale la guerra è rappresentata sotto forma di assedi, ciò porta a pensare che questi fossero all’ordine del giorno. Le vorremmo chiedere quanto c’è di vero in questa rappresentazione? In che modalità avvenivano gli assedi?

Va premesso che parole già proprie del linguaggio militare, come “strategia” e “logistica”, negli ultimi decenni sono state assorbite nel linguaggio corrente subendo una specie di banalizzazione che ha fatto perdere in gran parte la loro accezione originaria: precisiamo pertanto che per strategia si suole di solito indicare la capacità di agire militarmente nei grandi spazi, e che ad essa fa riscontro la “tattica” riguardante invece le azioni di ambito limitato. Non a caso ho dato al mio libro, pubblicato a suo tempo da Laterza, il titolo Rapine, assedi, battaglie: per tutta l’età medievale, dopo la razzia, gran parte dell’attività bellica consistette nell’attacco e nella difesa di luoghi fortificati: di fronte a un attacco, nella maggior parte dei casi, si tendeva cioè a reagire rinchiudendosi nei punti forti che, specialmente dal secolo X in poi, pullulavano ovunque; con i limitati mezzi disponibili all’epoca essi erano difficili da espugnare così che, come si sa, sino all’avvento delle più perfezionate artiglierie a polvere pirica, le possibilità di chi si difendeva erano nettamente prevalenti su quelle di chi attaccava. Per indicare tale perdurante situazione lo storico belga Claude Gaier ha coniato l’espressione “riflesso ossidionale” da me adottata traendola dal suo classico libro Art et organisation militaire dans la principauté de Liège et dans le comté de Looz au moyen âge pubblicato a Bruxelles nel 1968. Semplificando si possono indicare due principali modi di condurre un assedio: il blocco statico che tende a far cadere l’assediato per fame, e l’assedio dinamico che punta alla vittoria abbattendo materialmente le difese oppure scalandole con un attacco diretto.

In questo discorso non può mancare la battaglia campale, altro aspetto idealizzato della guerra medievale. Spesso questi scontri iniziavano per caso come ad Adrianopoli (378) o porre fine ai regni. Come ci si preparava ad una battaglia campale e come si decideva di arrivare ad uno scontro fisico di tale portata?

Nel già ricordato titolo Rapine, assedi, battaglie queste vengono al terzo posto perché in età medievale sono numericamente scarse rispetto alle altre forme di guerra. Si cerca di evitarle perché, considerate come veri e propri “giudizi di Dio” che comportano il rischio di giocarsi tutto in poche ore. Esse, si diceva, potevano “dare o togliere i regni”, come esemplarmente dimostrarono le battaglie di Benevento (1266) con la tentata rivincita di Tagliacozzo (1268). Non sono rari i casi in cui due eserciti rimangono schierati uno di fronte all’altro e, dopo avere cercato di spaventarsi a vicenda, finiscono per separarsi senza giungere all’uso delle armi. Il fiorentino Gino di Neri Capponi nel 1420 scrisse che “le battaglie campali non fanno in nessun modo per la comunità nostra” perché “il dì della battaglia innanzi alla fine d’essa nessuno può dire la vittoria certa per vantaggio che egli abbia, perché è sottoposta a mille pericoli”. In passato si riteneva che la storia militare consistesse essenzialmente nello studio delle battaglie delle quali però (non solo per l’età medievale) è spesso impossibile conoscere l’effettivo svolgimento o definire sino a che punto siano state “decisive”.

La nuova storia militare tende invece a studiare, nel limite del possibile, quello che John Keegan nel suo classico libro del 1976 ha chiamato il volto della battaglia” in “Il volto della battaglia. Azincourt, Waterloo, la Somme(Il Saggiatore, 2010). In questo saggio viene delineato il vissuto dei combattenti: non solo come maneggiano le armi e gli effetti che esse producono, ma esaminando antropologicamente riflessi e comportamenti: anche lo stress psichico dell’attesa di una battaglia non combattuta può lasciare tracce forse indelebili. E’ appunto ciò che ho tentato di fare, per quanto le fonti medievali lo permettono, nel mio recente libro sulle Battaglie medievali.

La storia militare medievale, in ambito accademico e non, nella nostra penisola fatica a trovare una sua posizione, nonostante si abbia un aumento degli interessati al settore. Rispetto al mondo anglosassone, tanto per citarne uno, le pubblicazioni latitano. A cosa è da imputare questa “disaffezione” per l’aspetto bellico, che ha plasmato le società del passato, non solo quella medievale?

Più che di “disaffezione” si può senz’altro parlare di congenita e generale mancanza di “affezione” come può dimostrare il seguente episodio da me personalmente vissuto. Nel 1981, nel corso di un convegno nel quale si mettevano a confronto le figure di S. Antonio da Padova e di Ezzelino da Romano, si presentò la necessità di accelerare i tempi sopprimendo alcune delle relazioni in programma; fra esse vi fu la mia che alludeva nel titolo alle temibili artiglierie di Ezzelino.

Nel comunicarmi la notizia uno degli organizzatori credette bene di aggiungere, senza la minima ironia, che intrattenersi sui mezzi usati per distruggere vite umane e opere d’arte gli appariva del tutto inopportuno: non tanto di mancanza di tempo pareva dunque trattarsi, ma di una vera e propria censura su un argomento ritenuto scandaloso e di cattivo gusto. Giovava certo, in proposito, il perdurante ricordo della seconda guerra mondiale che diede luogo (soprattutto per gli sconfitti) ad angosciosi tabù per tutto ciò che riguardava le guerre, comprese quelle più remote nel tempo; tabù che ancora in tempi recenti si usava esorcizzare ponendo di preferenza nei titoli di certe opere il termine guerra in endiadi con pace o proclamando che, nel trattare di “storia delle istituzioni militari” non si aveva alcuna intenzione di “glorificare l’argomento”.

Né tale tendenza era diffusa solo in Italia perché uno storico tedesco nel 2007, volendo trattare del conflitto fra il comune di Milano e Federico Barbarossa, sentiva la necessità di precisare che non si prefiggeva “alcun giudizio morale sulle azioni di guerra durante il medioevo”. Oggi si può forse avere l’impressione che negli ultimi tempi l’interesse per la storia militare possa avere migliore fortuna anche in Italia, ma temo si tratti di un’ impressione fallace.

Tra le fonti principali che ci raccontano la guerra medievale vi sono le cronache, che secondo i tempi e i luoghi adottano narrazioni diverse. Ad esempio, nelle fonti Alto medievali gli aspetti soprannaturali la fanno da padrone e i dettagli “tecnici” scarseggiano. Stessa cosa accade per la terminologia utilizzata dai vari cronisti che, in base alla loro cultura di riferimento, sembra fossero stati a conoscenza di altre fonti, come quella di Vegezio. Secondo Lei cosa determina, nelle varie epoche, il differente modo di raccontare la guerra? 

Sono propenso a non vedere grandi differenze fra alto e basso medioevo: in ogni tempo non mancano (si veda ad esempio l’Antapodosis di Liutprando da Cremona), per chi sappia coglierli, riferimenti utili per la storia militare. I cronisti, è vero, molto spesso sono ignari di organizzazione militare e facilmente soggetti all’influenza della letteratura classica che induce a dare nomi antichi a strumenti e tecniche del loro tempo.

Dopo il secolo X comincia certamente ad avere una certa diffusione nella cultura generale il testo tardo antico di Vegezio così che, quando ci si trova di fronte a episodi che appaiono da esso mutuati, è difficile capire se la conoscenza del trattato sia da attribuire ai protagonisti del racconto o solo a colui che scrive.

La mitografia cavalleresca della quale sono in genere imbevuti molti cronisti rischia sempre di fare dei cavalieri i soli protagonisti dimenticando, e implicitamente disprezzando, gli altri combattenti. Più in generale, insomma, la letteratura la vince spesso, anche se non sempre, sulla storia. Occorre poi, naturalmente, sempre tenere presente che i cronisti non si propongono di mettere in evidenza quello che noi vorremmo sapere ma si limitano a parlare di quanto a loro solo interessa.

La Chiesa cattolica era molto presente nella vita delle donne e degli uomini del Medioevo, quindi non mancava di pronunciarsi riguardo la guerra. Sappiamo dell’esistenza di vescovi in armi, di pratiche devozionali realizzate prima di scendere in battaglia e della presenza di santi militari. D’altra parte, ad esempio,  durante il Concilio Laterano II del 1139, vi sono delle norme volte a osteggiare la balestra come arma da combattimento. Le vorremmo chiedere come la Chiesa si ponesse nei confronti della guerra e, quindi, delle armi,  e come cambia la sua posizione  nel corso dei secoli?

Quanto alla posizione della Chiesa nei riguardi della guerra possiamo senz’altro rifarci a quanto ha scritto Franco Cardini nella Prefazione di Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla Grande Rivoluzione (Milano, Mondadori, 1982). Il cristianesimo – sostiene Cardini – “era fondamentalmente una religione di pace trovatasi tuttavia a doversi storicamente confrontare con la guerra e ad assumere nel suoi riguardi un atteggiamento realistico e articolato non astoricamente rigido”. Concependo la “teoria teologico-giuridica della guerra giusta”, implicitamente finiva per ammettere anche l’esistenza di una “pace ingiusta”.

Proibì, è vero, “l’arte mortifera e odiosa a Dio dei balestrieri e degli arcieri”, forse non soltanto per motivi umanitari ma perché quell’”arte”, permettendo di uccidere da lontano e a buon mercato, non solo era percepita come contraria alle regole di un leale combattimento, ma accentuava il ”potenziale sovversivo delle classi inferiori”. In ogni caso l’impiego di tali armi rimase sempre permesso contro gli infedeli né la Chiesa prese mai posizione contro altre armi egualmente letali né contro l’uso del fuoco. E’ assai probabile però che le reiterate proibizioni ecclesiastiche siano state del tutto ignorate nella pratica come del resto avvenne per i tornei che, nonostante i divieti, continuarono tranquillamente a svolgersi per tutto il periodo in cui la cavalleria celebrò i suoi trionfi.

Nella guerra contemporanea, come emerge dal conflitto russo-ucraino, la propaganda svolge un ruolo di primo piano. Le notizie si rincorrono e diventa difficile districarsi in questa mole di informazioni. Citando il celeberrimo saggio di Marc Bloch La Guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), (Fazi editore, 2017) ci viene in mente se, anche nel Medioevo, esistevano dinamiche come queste.

La diffusione di false notizie, direi, appartiene piuttosto agli espedienti usati nelle campagne di guerra per sviare tatticamente la marcia di un nemico. Non c’è dubbio che la propaganda abbia sempre accompagnato le contrapposizioni armate benché non sia sempre possibile conoscerne le forme e gli effetti. Applicazione diretta di una certa propaganda sono, per esempio, le allocuzioni pronunciate dai comandanti per incoraggiare la combattività dei loro eserciti alla vigilia di una battaglia che sia stato impossibile evitare. Le allocuzioni sono sempre ampiamente riportate (anzi di solito inventate di sana pianta) dai cronisti secondo una tradizione letteraria risalente all’antichità, con lo scopo di mettere in evidenza la giustezza della causa per la quale si era chiamati a combattere, sottolineando l’ignavia del nemico e altri elementi adatti a provocare contro di esso sentimenti di odio.

Nel ‘200 i trattati di retorica offrivano raccolte di modelli di simili allocuzioni per ogni possibile circostanza, e nelle città comunali per convincere l’opinione pubblica della necessità di un intervento bellico si tenevano concioni condite di istrioniche rappresentazioni in cui la buona oratoria si mescolava all’irruenza soldatesca che invitava all’azione. Era una diffusa forma di propaganda anche annunciare per scritto, in modo più o meno retorico, ad amici e a sostenitori i successi militari ottenuti sul campo e anche conservare nelle chiese bandiere e altri trofei presi al nemico sconfitto; non di rado chi ne aveva i mezzi poteva spingersi sino alla fondazione commemorativa di una chiesa sul sito in cui il combattimento si era svolto con lo scopo propagandistico di tramandare ai posteri il ricordo della vittoria.

Ringraziamo il professor Settia per la disponibilità e per i consigli bibliografici forniti.


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Written by : Redazione

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