Alessandria d’Egitto, 1290. Un convoglio di navi cristiane, battenti bandiera genovese, entra nel porto. Le dovute pratiche burocratiche vengono svolte e sotto gli occhi dei mercanti musulmani le merci dei cristiani vengono portate direttamente nell’ufficio della dogana. Si vedono assi di legno, tronchi d’albero, barili di pece, remi, corde, chiodi, blocchi di ferro e schiavi. C’è tutto il necessario per armare alcune piccole galee, e gli schiavi diverranno ottimi soldati mamelucchi. Manca un anno alla caduta di Acri, e il contrabbando dei mali christiani nel Levante è in piena attività.

Fenomeno di nicchia nella storia dei secoli XII e XIII, il commercio di ferro, pece e legname tra italiani e saraceni si colloca nell’intricato contesto del Levante crociato, tra la metropoli costantinopolitana, la roccaforte cristiana di Acri e il porto musulmano di Alessandria. Ma chi erano questi contrabbandieri, i mali christiani? E come svolgevano le loro operazioni? Si tentò di arginare il fenomeno?

Proviamo a dare una breve risposta a queste domande, iniziando con l’introdurre la nascita delle condizioni favorevoli a questo contrabbando. Con la prima crociata e la creazione degli stati latini in Terra Santa, l’Egitto fatimide (importante dinastia musulmana sciita) si vide tagliato fuori dai principali giacimenti di materie prime utilizzate in guerra, necessarie a contrastare la presenza cristiana. Queste erano principalmente il legname, un tempo ottenuto dalle foreste del Libano, e il ferro e la pece, estratti nell’Asia Minore meridionale. La forza navale congiunta delle città di mare italiane, oggi impropriamente conosciute come Repubbliche Marinare, aveva precluso alla flotta fatimide l’accesso armato alle acque del Mediterraneo, rendendo necessario l’acquisto dei beni sopra elencati. Furono proprio gli italiani a offrire i propri servigi e le proprie merci alla dinastia musulmana d’Egitto.

Prima di procedere con gli sviluppi del contrabbando, è bene soffermarci un momento su come si svolgeva l’armamento di un bastimento destinato ad una traversata commerciale. Agli investimenti sull’unità navale e sul carico partecipava circa un centinaio di persone, ma poiché non esistevano le assicurazioni, e viaggiare per mare era un’operazione rischiosa, la divisione dei rischi avveniva tramite i contratti di societas maris o commenda, in cui un mercante a terra finanziava la maggior parte del carico, e un altro si impegnava a finanziare le merci restanti e a trasportarle e venderle nei vari scali, ubicumque ei placuerit, cioè dove e al prezzo che avesse voluto. Al ritorno i profitti sarebbero stati divisi come deciso (solitamente due terzi a chi restava a terra e il resto al viaggiatore). Questi ricchi investitori rimasti a terra erano parte della neonata élite urbana nobiliare-mercantile, formatasi da matrimoni misti tra nobili impoveriti in cerca di liquidità, e mercanti pronti a spenderla in cambio di titoli. Era proprio questa élite cittadina che decideva l’invio delle flotte in Terra Santa e contemporaneamente investiva sui carichi dei bastimenti, rendendo incredibilmente difficoltoso per le autorità del Levante risalire ai responsabili del contrabbando di una singola nave.

La preparazione di un’impresa commerciale marittima era dunque un atto pubblico, e come tale soggetto alla stipula di un atto notarile che, oltre ai partecipanti e alle merci, riportava anche la destinazione finale. Su numerosi contratti genovesi, fortunatamente arrivati fino a noi, le spedizioni di contrabbando recano destinazioni ambigue, identificate da formule di circostanza quali Ultramare e Syria, oppure “in ogni parte o luogo che sia controllato dai cristiani” (cosa che nel XIV secolo, senza più porti cristiani nel litorale siriano, non era credibile), “come/dove mi dirigerà il Signore”, e infine “là dove sono diretto”. Probabilmente tutte queste locuzioni nascondevano un’unica destinazione, preclusa ai cristiani che trasportavano le merci proibite: Alessandria d’Egitto.

I convogli dei contrabbandieri navigavano lungo costa, svolgendo operazioni di cabotaggio (carico e scarico di merci nei vari scali del viaggio) che rendevano ancora più difficile risalire all’origine del carico. Arrivati davanti al porto di Acri, dove le varie città italiane avevano dei propri quartieri colmi di fondachi e magazzini sui quali detenevano giurisdizione quasi completa, i mercanti spesso trasportavano il carico proibito su bastimenti diretti ad Alessandria prima di entrare nel porto, in modo da inviare il tutto senza incorrere nelle sanzioni della dogana locale. Qualora questo non fosse stato possibile, si poteva sempre fingere che le merci “scomode” servissero come zavorra, giustificandone la presenza a bordo. Una volta arrivati nel porto egiziano, i cristiani potevano rivolgersi al diwān al-Khums, la dogana locale, per vendere successivamente a prezzi incredibilmente favorevoli al matjar, l’ufficio governativo del commercio, in cambio di allume, spezie e altri beni richiestissimi in Occidente.

A opporsi al dilagante commercio di armi furono le autorità pontificie, attraverso numerosi canoni conciliari e missive private, a partire dal III Concilio Lateranense del 1179. Agli inizi, al papato si presentò un problema: come impedire ai mercanti di svolgere le loro operazioni? Istituire un embargo navale all’Egitto era un’operazione impossibile (sebbene proposta successivamente) sia per la mancanza di effettive unità navali (gli unici che potevano fornirle erano gli italiani stessi), sia per l’impossibilità di mantenere flotte armate in mare per lungo tempo, e d’altro canto un’eventuale ingerenza dei pontefici in ambito mercantile avrebbe procurato un forte malcontento tra gli italiani, che contemporaneamente rifornivano di beni di ogni sorta i territori crociati in Oriente. Occorreva dunque agire diversamente. La Chiesa si impegnò allora in una retorica spirituale e pastorale che affondava le proprie radici nella passata riforma dell’XI secolo, le cui tendenze moralizzatrici ancora esistevano. Commerciare con i Saraceni in merci potenzialmente utili in guerra, quindi utilizzabili contro i cristiani stessi, o prestare servizio alle navi nemiche (manualmente o tramite consigli), mossi dalla “crudele avidità”, rendeva i mercanti pari ai Saraceni nel peccare, se non addirittura peggiori: li rendeva mali christiani, una vera e propria categoria spirituale, elencata insieme ad eretici, pirati e altri scomunicati nella Missa in Coena Domini, messa recitata ogni giovedì in chiesa. Ecco allora che un contrabbandiere colto in flagrante poteva essere sottoposto a scomunica, privato dei suoi beni e all’occorrenza reso addirittura schiavo.

Le proibizioni si susseguono per tutto il XII secolo, arrivando ad una nuova svolta nel 1215, con il IV Concilio Lateranense. Nell’Ad liberandam, canone che prepara la futura crociata, viene introdotto un divieto generale di navigazione verso l’Egitto di quattro anni, successivamente aumentati a sei nel 1274, e si concede ai mali christiani un metodo per fare ammenda dei propri peccati: si può versare il valore dei beni contrabbandati alla Chiesa, destinandolo in aiuto della Terra Santa, ed essere assolti dalla scomunica. In aggiunta a questo, nel XIII secolo si instaura il sistema delle licenze: a coloro che fanno del commercio il proprio sostentamento è concesso vendere ai Saraceni, eccezion fatta per le merci proibite. Tali licenze furono presto concesse sotto pagamento, con più facilità a coloro che erano fedeli al papa piuttosto che all’imperatore. I contrabbandieri, i cui profitti erano estremamente considerevoli, potevano ora operare con relativa tranquillità pagando ammende e licenze, e il papato da parte sua otteneva nuova liquidità, affermando nuovamente il proprio ruolo di autorità spirituale sulla sfera temporale, unendo le tendenze della passata riforma alla nascente monarchizzazione interna.

Nel 1291 Acri cadrà sotto la spinta mamelucca: l’Occidente punterà il dito contro i responsabili, e i mercanti italiani saranno i primi accusati. Lo sapeva bene Dante, che descrivendo i nemici della Cristianità, che Bonifacio VIII avrebbe dovuto combattere, avrebbe scritto:

Lo principe d’i novi Farisei,

avendo guerra presso a Laterano,

e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era Cristiano,

e nessun era stato a vincer Acri

né mercatante in terra di Soldano;

 

Andrea Lostumbo

Per approfondire:

JACOBY DAVID, Mercanti genovesi e veneziani e le loro merci nel Levante crociato, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria, nuova serie», XLI/1, 2000, pp. 213-256.

JACOBY DAVID, Commercial exchanges across the Mediterranean: Byzantium, the Crusader levant, Egypt and Italy, Routledge, Aldershot 2005, pp. 102-132.

MUSARRA ANTONIO, Medioevo Marinaro, il Mulino, Bologna 2021.

SCHEIN SYLVIA, From “Milites Christi” to “Mali christiani”. The italian communes in Western historical literature, in I Comuni italiani nel Regno Crociato di Gerusalemme. Atti del Colloquio “The Italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem” (Gerusalemme, Maggio 24 – Maggio 28, 1984), a cura di Airaldi Gabriella e Kedar Z. Benjamin, Genova 1986, pp. 680-689.

STANTCHEV STEFAN K., Spiritual rationality. Papal embargo as a cultural practice, Oxford University Press, New York 2014.

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Written by : Redazione

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