La spedizione dell’imperatore Federico II in Terra Santa, nel novero delle crociate ‘ufficiali’ conteggiata generalmente come la sesta, rappresenta un evento significativo sia nella storia delle Crociate che nella storia dei rapporti cristiano-musulmani nel Medioevo: per la prima volta, infatti, Gerusalemme tornò sotto il controllo cristiano attraverso la diplomazia e senza spargimento di sangue.

Per comprendere a fondo il contesto storico, e le cause che indussero lo Svevo a prendere la croce, bisogna però fare un passo indietro di circa mezzo secolo, fino al 1187, allorché la riconquista musulmana di Gerusalemme da parte del Saladino riaccese, in Occidente, il dibattito sulla necessità di una nuova crociata, una necessità avvertita come ancora più urgente dopo il fallimento della terza e quarta crociata (nel 1189-1192 e nel 1204, rispettivamente). Così, quando il 25 luglio 1215 – giorno della sua seconda incoronazione a re dei Romani – Federico II prese la croce ad Aquisgrana, quasi tutto il mondo cristiano accolse con favore una decisione che provocò invece qualche imbarazzo nel pontefice, Innocenzo III (1198-1216), per il quale una crociata imperiale rischiava di concretizzarsi in una spedizione posta al di fuori del controllo papale.

L’occasione per riportare l’iniziativa nel campo papale giunse in quello stesso anno con il IV concilio Lateranense, che riaffermò la necessità di una nuova crociata aggiungendo uno specifico decreto (Expeditio pro recuperanda Terra Sancta) ai settanta canoni finali: in questo modo, la crociata ora era nuovamente nelle mani del pontefice e sarebbe stata affidata al comando di un suo legato.

Alla morte di Innocenzo, avvenuta poco tempo dopo, il progetto crociato fu ereditato dal suo successore, Onorio III (1216-1227), che vi si dedicò alacremente cercando di coinvolgere tutti i monarchi cristiani, tra cui lo stesso Federico II. Il risultato dello sforzo papale fu l’organizzazione della quinta crociata (1217-1221), che avrebbe però fallito il suo obiettivo, lasciando Gerusalemme in mano musulmana. Dal canto suo Federico, sebbene avesse rinnovato il suo voto in occasione della sua incoronazione imperiale (1220), non si unì a quella spedizione e anzi ritardò ripetutamente la partenza, mostrando di avere altre priorità: prima di potersi dedicare pienamente alla causa della Terrasanta, egli voleva infatti consolidare il suo potere in Germania, in Italia e nel Regno di Sicilia.

Nonostante le continue dilazioni, nel 1225 Federico compì un ulteriore passo verso la crociata sposando Isabella di Brienne (1212-1228), erede al trono del Regno di Gerusalemme, e acquisendo così – in quanto consorte – il titolo di re di Gerusalemme; in quella occasione, l’imperatore promise nuovamente di salpare per Outremer, fissando la partenza per l’agosto del 1227.

Nel frattempo, però, nel marzo 1227 Onorio III era morto e il nuovo papa, Gregorio IX, si mostrò molto meno paziente del suo predecessore verso i doveri di Federico II. Questa volta, comunque, tutto lasciava supporre che l’imperatore fosse finalmente intenzionato a rispettare il proprio impegno: nell’estate di quello stesso anno, in effetti, un grande contingente si era radunato in Puglia, ma la concentrazione di così tanti uomini favorì lo scoppio di una violenta epidemia che contagiò lo stesso imperatore, costringendolo a ritornare quasi subito a terra.

Non tenendo conto di questi “legittimi impedimenti”, con una enciclica dell’ottobre 1227 Gregorio IX scagliò la scomunica su Federico, reo di aver infranto il suo voto crociato; alle accuse papali, lo Svevo rispose con un’altra enciclica, proclamando a tutti i cristiani la sua innocenza. Come ulteriore segno della sua buona fede, una volta ristabilitosi dalla malattia Federico decise poi di salpare ugualmente, lasciando Brindisi il 26 giugno 1228: nonostante l’anatema, dunque, l’imperatore dava finalmente inizio al suo iter hierosolymitanum.

Nel loro viaggio verso est la prima tappa dei crociati fu l’isola di Cipro, su cui Federico II riaffermò i suoi diritti di sovrano (l’isola era infatti un feudo imperiale sin dai tempi di suo padre Enrico VI), quindi l’esercito crociato riprese il mare verso Outremer, sbarcando ad Acri il 7 settembre 1228. Qui l’imperatore dovette confrontarsi con due diverse sfide: la riconquista di Gerusalemme e le travagliate relazioni con i baroni del Regno. Per quanto riguarda la prima, in particolare, da tempo lo Svevo aveva individuato nella diplomazia la via più praticabile, data la situazione di debolezza (anche militare) in cui versavano gli Stati crociati; dall’Italia, inoltre, giungevano notizie preoccupanti, con le forze pontificie pronte ad invadere la Puglia.

L’imperatore, pertanto, non poteva permettersi di ingaggiare una lunga guerra in Oriente. A conferma di quanto la strategia federiciana fosse stata lungamente meditata, sin dal 1226 circa l’imperatore aveva stabilito relazioni diplomatiche con il sultano d’Egitto al-Kāmil (1218-1238), che aveva chiesto il suo l’aiuto contro il fratello al-Mu’aẓẓam, governatore di Damasco (1218-1227); in cambio, al-Kāmil aveva promesso di cedere ai cristiani Gerusalemme, a quel tempo controllata proprio da Damasco. Tuttavia, in seguito all’improvvisa morte di al-Mu’aẓẓam nel novembre del 1227, il sultano aveva ripreso il controllo della Città Santa ed era ora riluttante a onorare la promessa fatta a Federico.

Dopo diversi mesi di contrattazioni, durante i quali l’imperatore giunse anche a schierare in campo l’esercito nel tentativo di impressionare la controparte, l’accordo fu finalmente raggiunto: il 18 febbraio 1229, a Giaffa, le due parti sottoscrissero un trattato che prevedeva la restituzione ai cristiani della città di Gerusalemme (consegnata priva di mura secondo le fonti arabe) oltre a Betlemme, Nazareth e a una striscia di terra che collegasse la Città Santa con la costa. L’area del Tempio, con la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsā, rimaneva invece nelle mani dei musulmani, ai quali si concedeva diritto di accesso e libertà di culto; ai cristiani era comunque concessa la possibilità di visitare il monte del Tempio. L’accordo prevedeva infine una tregua di dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni.

Gerusalemme era stata liberata: l’obiettivo della crociata poteva dunque considerarsi raggiunto. Ma le reazioni non furono quelle sperate da Federico e al-Kāmil: il trattato, infatti, venne considerato un tradimento su entrambi i fronti. Nel caso di Federico, lo scandalo suscitato dalla trattativa con gli “infedeli” andò ad aggiungersi alla sua scomunica e alla scomparsa della regina Isabella, avvenuta nell’aprile del 1228, indebolendo ulteriormente la sua posizione nel Regno. Da un lato, proprio la sua condizione di scomunicato, unita all’onta del trattato di Giaffa, suscitò un’opposizione interna guidata dagli ordini militari (con l’eccezione dei Cavalieri Teutonici) e dal patriarca Geroldo di Gerusalemme, esortati da Gregorio IX a non offrire alcun aiuto all’imperatore. Dall’altro, la morte di Isabella aveva reso il neonato Corrado il legittimo titolare dei diritti regali: ora Federico non era più re consorte, ma soltanto tutore dell’infante Corrado, e i baroni del regno erano autorizzati, se così desideravano, a rifiutargli la reggenza.

Ciononostante Federico, considerandosi ancora il legittimo sovrano, il 17 marzo del 1229 entrò a Gerusalemme e il giorno seguente, nella basilica del Santo Sepolcro, in assenza del clero si autoincoronò ponendosi sul capo la corona gerosolimitana, provocando la prevedibile irritazione dei baroni per un gesto ritenuto illegittimo. Come se ciò non bastasse, il 19 marzo l’arcivescovo Pietro di Cesarea, inviato appositamente a Gerusalemme dal patriarca, scagliò l’interdetto sulla città poiché l’imperatore vi era entrato nonostante fosse scomunicato: il risultato, abbastanza paradossale, fu il divieto di celebrare i riti religiosi nella Città Santa appena recuperata. In quello stesso giorno Federico, deluso da queste reazioni e dall’ostinato rifiuto del papa di assolverlo dalla scomunica, partì per Acri, dove il conflitto con i Templari e il patriarca degenerò in scontri militari tra le due opposte fazioni.

Vedendosi così fortemente osteggiato, lo Svevo si decise infine a ripartire verso occidente, anche perché nel frattempo era stato raggiunto dalla notizia dell’invasione del regno di Sicilia da parte di un esercito papale. Sperando di passare inosservato, l’imperatore si imbarcò all’alba del 1° maggio 1229 ma venne ugualmente riconosciuto dalla folla e bersagliato di frattaglie, un’immagine che strideva enormemente con i grandi progetti che avevano accompagnato la sua partenza, meno di un anno prima, per l’Oriente. Dopo esser sbarcato a Brindisi il 10 giugno 1229, il 23 luglio 1230 Federico siglò con il pontefice la pace di San Germano, ottenendo l’assoluzione dalla scomunica insieme al riconoscimento papale del trattato di Giaffa.

Nell’immediato, come detto, gli accordi di Giaffa suscitarono una generale disapprovazione sia nel mondo musulmano, che considerò il trattato un tradimento dell’Islam, che in quello cristiano, scandalizzato dalla trattativa con gli “infedeli” condotta da un imperatore scomunicato. Tale giudizio negativo, alimentato anche dalle accuse di ateismo mosse a Federico dalla propaganda pontificia, perdurò sostanzialmente fino all’Età dei Lumi, quando storici come Edward Gibbon e Voltaire ribaltarono la prospettiva, gettando le basi per il “mito” della tolleranza di Federico II. Benché la storiografia successiva abbia poi ridimensionato tale “mito”, la crociata di Federico II resta comunque uno dei momenti più importanti, e più discussi, nella vita dello Svevo e nella storia delle crociate.

 

Francesco D’Angelo

 

Per approfondire:

Abulafia David, Federico II. Un imperatore medievale, Einaudi, Torino 1993

Delle Donne Fulvio, Federico II e la crociata della pace, Carocci, Roma 2022

Musarra Antonio, Le crociate. L’idea, la storia, il mito, Il Mulino, Bologna 2022

Runciman Steven, Storia delle crociate, 2 voll., Rizzoli, Milano 2002

Russo Luigi, I crociati in Terrasanta. Una nuova storia (1095-1291), Carocci, Roma 2018

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Written by : Redazione

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