Riprendiamo oggi la Storia che avevamo cominciato a raccontarvi nella prima parte dell’articolo La crociata rinascimentale di Sigismondo Malatesta: eravamo rimasti allo sbarco di Sigismondo Malatesta in Morea (nome col quale era conosciuto il Peloponneso dagli inizi del XII secolo) nel luglio del 1464, proseguiamo dunque il nostro viaggio sulle orme del condottiero, alla ricerca della fortuna perduta.
Lo stesso giorno in cui Sigismondo Malatesta veniva assunto da Venezia, il Senato aveva inviato una lettera al re Luigi di Francia in cui riportava lo stato della guerra: “Le cose nostre in Morea non vanno che bene”, si leggeva. Ma non era vero. Sigismondo si trovò all’arrivo di fronte a una massa disordinata di crociati, mercenari e truppe locali, trincerati nelle fortezze costiere; la fame e la peste regnavano sovrane, morale e disciplina erano a pezzi. Il braccio di Maina e tutto l’entroterra della Morea, inclusa Mistrà, era perduto; la flotta li aveva abbandonati per tentare infruttuosamente la conquista di Mitilene. Venezia, dopo la disfatta dell’anno prima, aveva diverse priorità strategiche: “non fanno gran conto della Morea, perché vedono che in quell’impresa si consuma gran quantità di vettovaglie e si perde assai gente”. Di fronte al triste spettacolo – racconta la cronaca di Gaspare Broglio – Sigismondo “si ritrovò molto malcontento, e se così avesse stimato non avrebbe mai accettato l’impresa; nonostante ciò, essendo ormai sul campo, deliberò di dimostrarvi la sua virtù”.
Le prime mosse furono prudenti: una serie di azioni volte alla riconquista del poco difeso braccio di Maina. Sigismondo aveva voluto ridar forma e fiducia alle truppe; a questo punto però, acquistata confidenza, non volle perdere un attimo di più. Diede ordine di marciare su Mistrà, la capitale moreota. Era un azzardo: la città era difesa da doppie mura, e un esercito ottomano superiore nei numeri gli sbarrava il passo. Se anche fosse riuscito a superarlo la presenza nemica avrebbe reso impossibile qualunque assedio prolungato. Al Malatesta, però, piaceva giocare: le manovre arrischiate gli avevano dato gloria in Occidente un tempo, e gliel’avrebbero dovuta ridare in Oriente ora che l’aveva perduta. La sua visione era chiara – un’azione fulminea ed eclatante, dritta al cuore dell’avversario. L’obiettivo era duplice: stupire il Turco, giocando sull’effetto sorpresa, e ancor più stupire Venezia, inducendola, in tal modo, a rivedere le proprie considerazione strategiche e fornirgli le risorse necessarie alla vittoria finale. Così, il 14 agosto, mentre Pio II spirava ad Ancona, Sigismondo lanciava la sua scommessa: con una marcia notturna e poi a tappe forzate, lasciando indietro la retroguardia, si svincolò dagli avversari. Comparve dal nulla nella notte seguente sotto le mura della città bassa e la guarnigione turca, confusa su cosa fosse successo, si arrese immediatamente. Al mattino del 16 agosto Sigismondo scriveva una lettera a Venezia da dentro la città, mentre protetto dalle mura esterne si disponeva all’assedio della parte alta.
In un solo mese era stata ottenuta una vittoria straordinaria. Il Senato rispose con giubilo alla notizia, riversando congratulazioni e incoraggiamenti sul Malatesta; tergiversò tuttavia sulle richieste che in quella lettera aveva avanzato per il suo esercito, che “per denari e per malattie e per cavalli morti si trova in pessimo assetto”. In effetti, tutte le carte erano ancora sul tavolo, e Sigismondo lo sapeva: la presa della rocca, pressochè inespugnabile, avrebbe richiesto mesi di assedio; tempo che non aveva, perché rinforzi turchi erano già in marcia pronti a unirsi alle forze presenti e circondare la città bassa, trasformandola da rifugio in trappola per topi. Solo un solido intervento veneziano avrebbe potuto risolvere la situazione, ma lo stupore pareva aver avuto più effetto sugli Ottomani che sul Senato. All’arrivo del nuovo esercito turco il Malatesta fu costretto a ritirarsi dalla città, ma non voleva ancora rassegnarsi; si accampò a ridosso delle mura, in modo da continuare a impedirne la rioccupazione. Si trincerò, resistendo ai continui attacchi turchi; sperò fino alla fine che rinforzi sarebbero giunti. Venne invece soltanto l’inverno, e Sigismondo, provato dalle difficoltà logistiche, le malattie e gli scontri, quasi circondato, dovette infine far fronte alla realtà e ritirarsi a sud con le poche forze che gli restavano.
Sarebbe stata, quella, la prima e l’ultima manovra offensiva degna di nota messa in atto da Sigismondo in Morea; i quasi due anni successivi saranno spesi in una frustrante ed enigmatica paralisi. Il suo immobilismo, in effetti, suscitò subito sussurri; Andrea Dandolo, provveditore veneziano per la guerra, mandò al Senato lettere infuocate che accusavano il Malatesta di viltà e malavoglia. Accuse infondate: come si è visto, Sigismondo aveva tutta l’intenzione di compiere grandi gesta, quello era l’obiettivo dall’inizio ed era stato anzi fin troppo arrischiato nel rincorrerlo. Eppure, adesso rimaneva immobile. Perché?
Anche Sigismondo inviava con frequenza lettere al Senato; in quasi tutte, simile a un rito religioso, lo stesso leitmotiv di rimostranze e richieste:
“Che la Serenità vostra sappia ora che gente si ritrova qui, acciocchè intenda le sue cose: tra tutti credo si trovino 500 uomini d’arme di fanteria, circa 2000 ammalati e malcondizionati, ed ogni giorno vengono mancando e morendo, e né con ordini né con bandi vi si può rimediare (…) sicchè dal canto suo non manchi a fare le debite provvisioni, chè dal canto nostro non mancheremo di fare il fatto e l’utile della vostra illustrissima Signoria e il debito e l’onore nostro”.
La situazione era assolutamente critica: fame, malattie e mancanza di fondi rendevano quasi del tutto impossibile operare. Era già tanto se l’esercito non si sfaldava. Nel giugno 1465 c’era stata una rivolta militare; trecento fanti disperati chiedevano le paghe, perché non potendo permettersi le vettovaglie “morivano di fame”. Francesco da Tiano, secondo condottiero per importanza dopo Sigismondo, inaspettatamente, invece di sedare la ribellione, difese i rivoltosi: disse che di otto mesi di paga i suoi uomini ne avevano ricevuto uno e mezzo, e impotente li aveva visti vendere pezzo per pezzo il loro equipaggiamento; quanto a lui, aveva perso un figlio e un fratello, e ne aveva abbastanza.
Venezia, tuttavia, continuò a concentrare risorse nelle operazioni sull’Egeo, e per il Peloponneso si limitò a sostituire il vecchio provveditore, ormai in guerra col Malatesta, con uno nuovo, Giacomo Barbarigo – il quale si unì subito al condottiero nelle suppliche, le lamentele e le infinite recriminazioni verso la politica senatoria.
L’immobilismo era, dunque, militarmente giustificato. Ma non sempre. Alla fine del 1465 i Turchi si erano quasi del tutto ritirati dal Peloponneso, eppure, nonostante le proteste del Barbarigo, Sigismondo non si mosse. “In questo Paese non si trovano al presente Turchi, si può andar dovunque con 100 cavalli; non è modo questo signore voglia far niente”. A questo punto della campagna, in effetti, l’atteggiamento di Sigismondo era cambiato: con la sua inattività cercava attivamente di convincere Venezia a licenziarlo. Per capirne il motivo bisogna prendere in considerazione la sua situazione domestica. Rimini era nelle mani dell’amata Isotta e del figlio Sallustio, ma il loro potere era tutt’altro che saldo. Il nuovo papa, Paolo II, aveva dichiarato ogni sua successione illegittima, pretendendo il ritorno al possesso diretto della Chiesa, appoggiato da una forte fazione papista; il figlio maggiore, Roberto Malatesta, recentemente diseredato dal padre, era fuggito a Milano presso Francesco Sforza, da dove pianificava un ritorno in grande stile; infine, la stessa Venezia che nei suoi piani avrebbe dovuto proteggere la sua città da queste pretese era tutt’altro che disinteressata. Subito dopo il fallimento dell’assedio di Mistrà, nei quartieri invernali di Nauplia, l’epidemia che decimava le armate veneziane colpì anche Sigismondo, gravemente. Ciò gli permise di assistere in vita a un raro spettacolo: quel che sarebbe potuto essere di lui e del suo dominio una volta morto. La falsa voce della sua dipartita si diffuse ovunque velocissima, mettendo in moto all’istante l’Italia intera: Milano, Roma e Venezia corsero con truppe e ambasciatori a tentare di impadronirsi di Rimini, e soltanto la notizia, reiterata, che Sigismondo era ancora vivo mise un freno allo scoppiare dell’incendio. Ad ogni modo, si era alzato il sipario: la crociata non gli avrebbe dato riabilitazione presso il papa né la protezione veneziana, e anzi metteva a rischio quel poco che restava del suo onore e dominio. Non era per questo che aveva scelto di combattere.
Durante gli eventi suddetti il Senato veneziano si era chiuso verso di lui in un inquietante silenzio stampa, che non aveva tuttavia impedito alle notizie di raggiungerlo. C’è una lettera al Senato, datata 28 febbraio 1465, che spicca sulle altre per la profonda umanità che mette a nudo. Ad essa il Malatesta affida tutte le sue ansie e preoccupazioni – per la sorte sua, dei suoi uomini, ma soprattutto della moglie e del figlio; al rancore sarcastico, per nulla diplomatico, si giustappongono il timore e la nostalgia:
“E lasciamo stare i ritardi delle provvigioni, ma anche di avvisi e risposte, sono quattro mesi che da Venezia non si sente cosa alcuna (…) Questa mia allegata mandatela ad Isotta a Rimini, chè delle cose di Rimini non so se siano vivi o morti, né so se dalla morte di papa Pio si è guadagnato o perduto. Quanto a me, credo sia perduto poco, che se non perdo la vita, poco altro c’è da perdere, né voi per vostro intelletto e umanità mi avete scritto cosa alcuna di queste materie, sicchè, non essendovi gran fatica la pena, datemi avviso. Queste maledette febbri e malattie hanno ucciso molti valenti uomini di qua dei nostri…”
Venezia lo libererà dei suoi tormenti il 25 novembre 1465, dandogli licenza; più che per motivi militari – su cui tanto insisteva il Barbarigo, ritenendo il suo immobilismo più dannoso che utile alla causa – per stabilizzare una situazione sempre più incerta circa l’eredità dei possedimenti malatestiani ed evitare una loro riannessione diretta alla Chiesa. Sigismondo lasciava la Morea il 25 gennaio 1466, restando in mano cristiana quasi soltanto le città di Modone e Corone. Giacomo Barbarigo continuò a combattere solo, con le poche forze che aveva; morirà sul campo di battaglia nell’estate di quell’anno.
Lo stesso Malatesta non sfuggirà a lungo alla morte: venne meno nel 1468, servendo il nuovo papa che aveva cercato di strappargli Rimini come fedele condottiero e docile vassallo. Alla successione scoppiò la guerra, da cui emerse vincitore Roberto, il figlio diseredato; entro la fine del secolo, la città passerà al dominio diretto della Chiesa. Il mondo stava cambiando, potenti Stati nazionali o regionali asserivano sempre più il loro potere sui condottieri e i principati minori.
Della crociata di Sigismondo Malatesta rimangono due cose: un’ode dell’umanista neopagano e rivoluzionario Callimaco Esperiente a cantarne le gesta, e soprattutto le ossa di Pletone, che aveva trafugato da Mistrà e fatto tumulare in un’arca monumentale nel Tempio di Rimini. Anche l’istituzione crociata stava cambiando, e la sua ne era perfetto termometro, in almeno due caratteri. Il primo: che era stata una crociata veneziana, ossia di uno Stato che combatteva per i suoi esclusivi interessi di difesa ed espansione, dalle cui decisioni e priorità dipendevano quasi interamente le sorti dei comandanti sul campo; non più iliade di baroni, liberi guerrieri, ma mestiere delle armi. Il secondo: che era stata veramente, nella percezione del condottiero e in quel poco che ne venne indietro, una crociata umanistica, in cui alla sacralità della fede si sovrapponeva un’altrettanto venerata, e assolutamente nuova, identità culturale “occidentale” derivata dalla classicità.
Nota dell’autore: per favorire la comprensione del testo è stato “normalizzato” l’italiano delle citazioni dirette da fonti primarie dell’epoca.
Alessandro Navone
Per approfondire:
BROGLIO G., Cronaca malatestiana, del secolo XV, dalla Cronaca Universale, a cura di A.G. Luciani, Bruno Ghigi, Rimini 1982.
D’ELIA A.F., Pagan Virtue in a Christian World. Sigismondo Malatesta and the Italian Renaissance, Harvard University Press, Cambridge 2016.
FALCIONI A., Le ultime imprese militari di Sigismondo (1464-1468), in La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 2 (la politica e le imprese militari), a cura di FALCIONI A., Rimini, Bruno Ghigi, 2006
PELLEGRINI M., La crociata nel Rinascimento. Mutazioni di un mito 1400-1600, Le Lettere, Firenze 2014.
RONCHEY S., L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Rizzoli, Milano 2006.
SETTON K., The Papacy and the Levant (1204-1571). Volume II. The Fifteenth Century, The American philosophical society, Philadelphia 1978, pp. 196-313.
SORANZO G., Sigismondo Pandolfo Malatesta in Morea e le vicende del suo dominio, in Atti e Memorie della Regia Deputazione di storia patria per le Romagne, vol. 8, Bologna, 1918