Pio II, papa crociato del Rinascimento per eccellenza, si spegneva ad Ancona il 14 agosto 1464. All’unità cristiana nella guerra contro il Turco aveva consacrato pressoché tutta la vita, fin da quando, non ancora trentenne, era approdato a Basilea tra i padri conciliari. Sforzi vani: la sua crociata, dopo sei anni di tentativi e preparativi, si dissolveva come bruma del mattino. Il duca di Borgogna, Filippo, era stato trattenuto dall’andare per ordine del re di Francia suo signore; il figlio Antonio, saputo della morte del papa, si fermava a Marsiglia. Il doge di Venezia Cristoforo Moro, che da Ancona avrebbe dovuto traghettare Pio II e i crociati in Oriente, tornava a casa con la sua flotta; i volontari, giunti da tutta Europa, venivano bruscamente dispersi. Un’immagine tragica, quella del papa morente che dall’alto del palazzo vescovile guarda il mare e le navi su cui mai potrà metter piede, che tanta storiografia eleggerà a emblema del tramontare inesorabile dell’istituzione crociata.

Eppure – cosa poco riconosciuta – la sua crociata era in realtà già in corso, al di là del mare; a guidarla, per singolare paradosso della Storia, nientemeno che il suo nemico giurato: Sigismondo Malatesta.

In effetti il Malatesta era un crociato improbabile. Vicario papale di Rimini, ribelle, si era trovato in guerra con Pio II dal 1460 alla fine del 1463; anni durante i quali aveva rimediato due scomuniche e una condanna al rogo. La bolla papale Discipula veritatis lo chiamava bestia, demone, figlio del Diavolo e constava di una lunghissima lista di peccati efferati, tra cui eresie varie, sodomia, incesti, stupri, stragi di innocenti, congiure, uxoricidi e fratricidi. Certo, si trattava perlopiù di propaganda – così va vista ampia parte della “leggenda nera” che si andò nel tempo ad accumulare sul suo personaggio. Ma c’era, probabilmente, almeno un fondo di verità, in particolare nella tendenza di Sigismondo a non aderire alla morale cristiana tradizionale. Aveva stretti contatti con i circoli platonici e neopagani d’Italia, e a corte si dilettava di partecipare a dibattiti sul Fato, sull’astrologia, sulla natura dell’anima e dell’Aldilà. Della sua condotta in amore testimoniavano schiere di amanti e figli illegittimi, della brutalità in guerra le opere letterarie che promosse. Tutte le arti che patrocinò si riempivano di divinità pagane: il Tempio malatestiano a Rimini, in teoria chiesa francescana, si erge tutt’ora a monumento del singolare sincretismo di cui si fece paladino. Perché un uomo come lui decideva di andare in crociata, peraltro sotto un papa che l’odiava?

Chiaramente il Malatesta non aveva lo stesso spirito crociato di Pio II, ma ciò non implica che non fosse spinto anche lui da ragioni ideologiche; anzi, la cosa sarebbe estremamente inverosimile. Coltivava, fuori d’ogni dubbio, un legame profondo con il mondo greco. Le opere letterarie che sotto di lui fiorirono a Rimini, l’Hesperis di Basinio Parmense, il De Re Militari di Valturio, si ispiravano in primis alla classicità greca, non latina, paragonando Sigismondo agli eroi esemplari di quel mondo antico; lo stesso discorso valeva per il Tempio. Alla Grecia dei suoi giorni lo rimandavano invece legami personali: Cleope Malatesta, sua cugina, era stata principessa consorte di Teodoro II, despota della Morea (nome col quale era conosciuto il Peloponneso dagli inizi del XII secolo) bizantina, e la corte riminese collezionava intellettuali e viaggiatori passati da Costantinopoli o dalla capitale moreota di Mistrà. Sigismondo subiva in particolare il fascino di Gemisto Pletone, filosofo greco neoplatonico residente in Morea, coi suoi progetti di rifondazione socio-politica di Bisanzio come nuova Sparta; l’uomo era morto prima che riuscisse a convincerlo a fargli visita a Rimini, ma il fascino era rimasto. La stessa tradizione crociata non gli era affatto estranea. Un Malatesta, Ramberto, era morto combattendo in Morea dieci anni prima, e già papa Niccolò V, alla caduta di Costantinopoli nel 1453, aveva inviato a Sigismondo una lettera per spronarlo all’impresa della riconquista. La sua visione della crociata, rintracciabile tra le righe dell’Hesperis, aveva poco a che vedere con i canonici richiami cristiani: si esprimeva nello scontro culturale, non  religioso, tra una percepita civiltà occidentale erede del mondo classico e la costruzione di un Turco barbarico, selvaggio, tirannico. Una crociata di nuova concezione, ma per nulla priva di un una sua aura di sacralità.

È però altrettanto evidente che le ragioni immediate di Sigismondo fossero principalmente pragmatiche. La sua ribellione al papa non era finita con lui sul rogo, ma solo per il rotto della cuffia: a Pio II, grazie soprattutto alla mediazione veneziana, aveva strappato una pace che gli permise di mantenere Rimini e la vita, perdendo però ogni altra cosa. Tutte le sue altre terre e domini, che tanto aveva faticato a difendere ed espandere nella sua carriera di signore e mercenario, erano andate alla Chiesa e ai suoi nemici. Inoltre, la sua stessa città minacciava di voltar faccia e rovesciarlo. Ancor più, forse, doveva angosciarlo la rovina tragica dei suoi sogni di gloria; in cambio della pace Pio II aveva preteso che si confessasse reo dei peccati imputatigli, con straordinaria umiliazione. Anni prima Sigismondo era stato il più brillante condottiero d’Italia, e si era permesso di sognare in grande: voleva essere ricordato alla stregua degli Scipioni, di Achille, dei comandanti invitti della Storia: ora il suo Tempio, colossale monumento a se stesso, giaceva incompleto per mancanza di fondi.

Dopo la pace, Sigismondo passava le giornate indolente, a “cacciare e uccellare” per sfuggire alle “bizzarrie e malinconie”, ma non si era per niente arreso. Voleva indietro la grandezza perduta. “Ritrovo la condizione mia” scriveva a Pier Francesco Medici il 5 dicembre 1463 “essere diversa, l’opposto di quel che volgarmente si suol dire, che chi ha poca roba ha pochi pensieri; a me è rimasta poca roba e molti pensieri”.

Non dovette attendere l’occasione a lungo. Venezia aveva dichiarato guerra all’impero ottomano il 28 luglio di quell’anno, dispiegando ampie forze per la difesa della Morea; dopo un inizio promettente, il capitano generale Bertoldo d’Este era rimasto ucciso sul campo e rinforzi turchi erano penetrati in massa nella penisola. Servivano nuove energie e un nuovo capitano, in fretta. Venezia contattò uno per uno i maggiori condottieri d’Italia, senza successo: nessuno voleva imbarcarsi in un’impresa tanto disperata. Tranne uno. Sigismondo vedeva nella crociata la sua ultima speranza di redenzione, credeva di poter trovare in essa protezione (veneziana) dei suoi domini, perdono papale, restituzione delle terre e della gloria perdute. Si offrì volontario. Pio II non apprezzò affatto, ma per il Senato veneziano non c’era stata altra scelta: il 13 luglio 1464 Sigismondo sbarcava in Morea da capitano generale.

Nota dell’autore: per favorire la comprensione del testo è stato “normalizzato” l’italiano delle citazioni dirette da fonti primarie dell’epoca.

 Alessandro Navone

 

Per approfondire:

BROGLIO G., Cronaca malatestiana, del secolo XV, dalla Cronaca Universale, a cura di A.G. Luciani, Bruno Ghigi, Rimini 1982.

D’ELIA A.F., Pagan Virtue in a Christian World. Sigismondo Malatesta and the Italian Renaissance, Harvard University Press, Cambridge 2016.

PELLEGRINI M., La crociata nel Rinascimento. Mutazioni di un mito 1400-1600, Le Lettere, Firenze 2014.

RONCHEY S., L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Rizzoli, Milano 2006.

SETTON K., The Papacy and the Levant (1204-1571). Volume II. The Fifteenth Century, The American philosophical society, Philadelphia 1978, pp. 196-313.

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Written by : Redazione

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