Noi di Medievaleggiando abbiamo avuto l’onore di intervistare la professoressa Maria Giuseppina Muzzarelli, docente ordinario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. La professoressa affronta lo studio del Medioevo soprattutto da un punto di vista di storia della cultura e della mentalità e copre tutto l’arco dell’Età di Mezzo, dall’alto al basso. In particolare i suoi studi si concentrano sul pensiero etico-economico e sui Monti di Pietà, ma anche sugli ebrei a Bologna e soprattutto è conosciuta al grande pubblico per i suoi libri dedicati al fenomeno della moda medievale, in particolare sul velo in Occidente, e sulle figure e i ruoli femminili nel Medioevo. Inoltre la docente è ospite fisso del Festival del Medioevo di Gubbio.

 

  • Intanto la ringraziamo per averci concesso questa intervista e iniziamo con una domanda “facile” come è nata la sua passione per il Medioevo e cosa l’affascina di più di questo periodo storico? Inoltre ci piacerebbe conoscere i Suoi Maestri, quelli che hanno maggiormente influito sulle sue scelte accademiche.

Il mio interesse per il Medioevo non è una passione originaria. Mi ero iscritta a filosofia ed ero attratta dalla filosofia antica ma il primo corso che ho seguito (e il primo 30)  fu quello di “Storia Medievale” con il professor Ovidio Capitani che quell’anno tenne un corso che riguardava l’etica economica nel Medioevo, materia praticamente di sua invenzione. Era un corso talmente bello e innovativo che venivano i miei amici da altre Facoltà a seguirlo. In questo corso trovai sollecitazioni ad approfondire lo studio di un’epoca lontana analizzata a partire da domande e temi che in quegli anni erano in discussione: chiesi la tesi su un tema trattato in quel corso, i Monti di Pietà e da allora, era il 1973, non ho mai smesso di occuparmene. Per tre anni ho insegnato nella scuola (tenendo nel pomeriggio esercitazioni all’Università) e poi ho iniziato un percorso accademico  Il Medioevo è stato una parte importante della mia vita e opero per trasmettere quella passione che mi ha indotto ad affrontare temi diversi con autentico entusiasmo. 

Anche a lezione cerco di  dimostrare che la storia non è un insieme di date, ma un modo di conoscere meglio l’oggi approfondendo il passato e che la storia ci insegna a porre domande più che a trovare risposte. Saper fare domande serve, è utile, come lo è la storia a renderci consapevoli, a capire quello che è accaduto e che accade intorno a noi.

  • Come nasce il suo interesse verso lo studio della condizione femminile nel Medioevo?

Tematiche legate al genere non sono state nel mio orizzonte per molti anni, anche se era il periodo del femminismo. Mi interessava soprattutto la storia sociale e della mentalità. Come ho detto il mio approccio al Medioevo è stato con i Monti di Pietà come li propose a  noi studenti in classe il prof. Capitani  interessandosi sì dell’aspetto economico del fenomeno ma soprattutto della storia della mentalità, della coscienza, cioè del livello di consapevolezza che avevano gli uomini del tempo, giuristi, predicatori, cronachisti, della relazione tra sfera economica e sfera etica. Ho cercato di comporre le posizioni teoriche in materia di prestito ad interesse con le concretissime esigenze di chi aveva bisogno di denaro in prestito e si rivolgeva ai Monti o ai banchi ebraici, un altro appassionante oggetto di di interesse.

Sempre su suggerimento del professor Capitani ho studiato la penitenza nell’Alto Medioevo (tenne un seminario che si svolgeva al sabato pomeriggio dalle 15 alle 17) e sui  libri penitenziali. Spostai così il mio interesse ai secoli prima del Mille e dalla storia con implicazioni economiche a quella dei comportamenti. I libri penitenziali sono lunghi elenchi di peccati utili al confessore per interrogare i penitenti. Vi si leggono tutte le possibili mancanze di uomini e donne deboli, fallaci (come tutti noi) e da recuperare. La lente costituita dai libri penitenziali  riflette una società che lavora, opera intreccia relazioni ma soprattutto restituisce le idee di chi definiva questo o quel comportamento un peccato. Di nuovo torna il tema della coscienza. Nel grande mare di peccati indicati ad esempio nel “Corrector sive Medicus” di Burcardo di Worms (950-1025)  sono andata successivamente a pescare materiale relativo ai peccati delle donne. L’ho fatto a distanza di anni quando mi è capitato di affrontare in maniera più sistematica il tema dei ruoli delle donne e della loro considerazione. Ragionando su comportamenti delle donne e sui pregiudizi che le riguardavano  mi sono tornati utili i Penitenziali che consentono, tra l’altro, di cogliere i segni di una misoginia diffusa. Quest’ultima, a sua volta, riflette la paura degli uomini per il protagonismo femminile. Dopo diversi anni quando ho affrontato il tema del rapporto tra donne e cibo  sono andata a cercare cosa si diceva a questo riguardo nella letteratura penitenziale e ho trovato cose interessanti.

  • Lei ha affrontato la “questione femminile” anche da un altro punto di vista, quello del cibo. Ci può spiegare com’era questo rapporto e perché è così importante studiarlo?

L’interesse per la relazione fra le donne e il cibo è nato una ventina di anni fa quando mi sono accorta che molti studi riguardavano il  cibo ma mai, o quasi, in relazione al genere. Ho cominciato a ragionare sul nesso donne e cibo  individuando stimolanti elementi di specificità. Ho iniziato così un percorso (per un tratto condiviso con una collega scomparsa Fiorenza Tarozzi) che mi ha portato  a scrivere diversi saggi e libri sul tema.  Ho analizzato la relazione nel lungo periodo: le donne hanno sempre mangiato più o meno come gli uomini ma guardando a fondo si colgono molte distinzioni. È vero che le donne hanno sempre cucinato, anche se su questo servirebbero degli approfondimenti, ma ho cercato di capire quali elementi hanno connotato nei secoli questa relazione e mi è parso di vederne molti, in particolare il tema della misura imposta alle donne. Queste ultime hanno dovuto a lungo dimostrare, assumendo il cibo che sapevano contenersi, come era chiesto loro dalla società.

Siamo di fronte a una costruzione culturale a partire dalla colpa attribuita ad Eva di avere precipitato l’umanità nel peccato per non aver saputo resistere alla tentazione costituita dal frutto indicatole dal serpente. Mi ha appassionato al riguardo approfondire il tema della rappresentazione del serpente con aspetto femminile.

Una volta messa in luce questa rappresentazione ho voluto capire da quando il serpente (anzi la serpenta) viene dipinto con cuffia e collaretto, con veli in testa, con busto e braccia di donna. Alla ricerca delle prime rappresentazioni ho affiancato quella sulle possibili ragioni indagando in testi coevi. Il teologo parigino Pietro Comestore rappresenta una tappa importante in un percorso che ha raddoppiato la responsabilità del genere femminile nella colpa originaria nella stessa epoca in cui nasceva il culto della Vergine e si costruivano  grandi cattedrali come Notre Dame di Parigi. La storia ci mette spesso davanti a contraddizioni, paradossi, percorsi divergenti e, come avrebbe detto il prof. Capitani davanti al compossibile.

  • Passiamo a uno degli argomenti che è al centro dei suoi studi: la moda.  Agli occhi di noi contemporanei, può sembrare un argomento “frivolo” ma sappiamo che esso ci può fornire uno spaccato interessante sulla vita nel Medioevo, sulla società dell’epoca prendendo anche a esempio le leggi suntuarie. Ci racconta come nasce questo interesse?

Il mio interesse per il tema della moda è nato quando ho cominciato a studiare la predicazione, tema che mi ha interessato moltissimo come forma di comunicazione e come mezzo capace di mettere in forma la realtà circostante. Ho notato che erano davvero molte le prediche dedicate a pompe e vanità. Allora mi stavo occupando di usure e di Monti di Pietà ma quelle prediche mi incuriosivano ed ho cominciato a raccoglierle.  Il tema cominciava a piacermi parecchio ma temevo la disapprovazione del professor Capitani ed esitavo a proporglielo per un articolo che invece feci e lui stesso mi suggerì di pubblicare sulla “Rivista di storia della Chiesa in Italia”. Da allora ho continuato ad occuparmi di questo argomento ma anche di leggi suntuarie, norme che disciplinavano il lusso, tema che ho vieppiù irrobustito grazie al sostegno e alle occasioni di pubblicazione che mi ha offerto il professor Paolo Prodi i cui seminari  mensili ho seguito per anni. Prodi è stato un altro importante e costante punto di riferimento.

Lussi e vanità erano uno degli aspetti del mio interesse più generale per la storia della moda, per gli oggetti e il loro valore economico, sociale e simbolico.

Un diligente lavoro di archivio mi ha consentito di ricostruire gli abiti e gli accessori che erano nelle case, che venivano consegnati come dote o destinati per testamento. Il lavoro d’archivio è una grande scuola  di pazienza, di ricostruzione pezzo dopo pezzo del modo di funzionare di una società attraverso atti notarili che riportano acquisti, vendite, cessioni, inventari e così via. La ricerca storica si può compiere in tanti modi ma è ineludibile, secondo me, misurarsi con il lavoro d’archivio: tutti i ragazzi di laurea magistrale che mi chiedono una tesi li mando a fare esperienza di ricerca in archivio per capire come funziona, come impostare una ricerca, come fare ad aggiungere un tassello anche piccolo di conoscenze a quanto già si sa. In archivio si impara a impostare piste di ricerca, a fare domande, ad accontentarsi di ritrovamenti anche piccoli e a capire il ruolo della fortuna che c’è e conta! Dal lavoro d’archivio è nato il mio libro “Guardaroba Medievale: vesti e società dal XIII al XVI ” ( Il Mulino, 2008): questo studio ha riempito un vuoto, dato che il tema non era mai stato trattato con sistematicità. Dal tema del vestiario ho allargato il mio campo d’indagine declinandolo verso la sfera del lusso nell’abbigliamento e del suo significato. Sul lusso ho lavorato con colleghi come Giorgio Riello dell’Università di Woewick impostando ricerche internazionali e realizzando una collaborazione che dura ancora.

Alle leggi suntuarie ho dedicato il mio penultimo libro, Le regole del lusso. Apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’età moderna (l’ultimo uscirà fra qualche mese ed è sulle madri, madri mancate, quasi madri nato dall’esperienza, molto bella, delle Lezioni di storia Laterza). Queste leggi emanate per secoli in tutte le città d’Italia e d’Europa consentono di “leggere” i progetti dei legislatori, i gusti e le passioni delle donne (ma non solo), i prodotti che circolavano ed altro ancora. Erano uno strumento per governare nella gerarchia e nella differenza  ma anche per aumentare le entrate (grazie alle multe)  e mantenere le distanze fra diverse condizioni sociali e morali, distanza anche per età e per mestiere. Lo studio di queste norme consente di ricostruire un mondo di valori, intenzioni, progetti ma anche di cose e di occasioni sociali (feste, banchetti).

L’interesse per il velo nasce certamente da quello più generale per gli oggetti della moda dotati di molti significati ma si è fatto approfondito e sistematico grazie a una ricerca  collettiva finanziata dal Ministero. Credo molto nel lavoro collettivo al quale ho partecipato anche sul tema della storia degli ebrei e che ho promosso sulle leggi suntuarie, sul velo e da ultimo sui libri memoriali. Lavorare in gruppo fa procedere più speditamente, consola, consente di vedere le cose sotto diversi punti di vista ma non è sempre facile.

  • Quanto cambiava spesso cambiava la moda, che evoluzione aveva?

A cavallo tra XIII e XIV si evidenzia una frattura: c’è l’irruzione sulla scena di un fenomeno nuovo che consiste nell’abito che aderisce al corpo. Il corpo messo in evidenza è quello maschile, perché la moda fa il suo esordio addosso all’uomo con i primi farsetti, le giacche attillate e imbottite, che sono le antenate dei nostri blazer.

Gli uomini mettono in evidenza busto e soprattutto gambe coperte da calze multicolor eseguite da abili artigiani.

Un’altra fase di cesura si coglie nel XV secolo con una serie di interventi architettonici sul corpo, soprattutto femminile, manipolato, ridisegnato, costretto entro stretti busti accompagnati da sottostrutture per tenere le gonne lontano dal corpo.

In questa fase è il corpo della donna a segnalare le più importanti novità con il corpetto che realizza una forma triangolare con la punta rivolta verso il basso che si combina con un secondo triangolo con il vertice all’altezza della vita e la base all’altezza dei piedi, dalla vita ai piedi, che ingabbia la donna e la trasforma o meglio la mette in forma. La storia del corpetto dai molti significati è andata avanti fino alla fine dell’Ottocento. Seguire cambiamenti e continuità nella storia delle vesti significa percorrere la storia dell’economia, della cultura, della mentalità, delle relazioni fra i generi e così via: tante storie in una storia, tanti intrecci, percorsi ricostruibili ricorrendo a fonti diverse che vanno tra loro interconnessi. Se avessi abbastanza energie riprenderei la storia degli oggetti e del loro valore materiale ma non solo. Vorrei rispondere alla domanda “quantum valet”? Lo vorrei fare per definire costi, capire quante ore di lavoro ci volevano per produrre cose delle quali vorrei definire il valore monetario ma anche sociale. Uno studio del genere sostanzialmente manca e spesso mi riprometto di avviarlo sfruttando ad esempio le informazioni che si ricavano dalle vesti bollate, quelle vesti cioè che già si possedevano all’epoca dell’emanazione di una legge suntuaria che le proibiva. Per poter continuare ad utilizzarle andavano denunciate e bollate. Sono giunti fino a noi elenchi di queste vesti che ci offrono materiale interessantissimo da esaminare. Per Bologna disponiamo di un registro con 211 descrizioni ma per Firenze a metà Trecento abbiamo oltre 6.000 registrazioni: una formidabile risorsa documentaria, un mare nel quale immergersi. Anche solo scorrendo quelle descrizioni si resta colpiti  da abiti che erano di sei, sette o otto diversi colori con immaginifici nomi ed avevano righe verticali, righe orizzontali, trasversali, e financo righe nelle righe. I colori erano importanti, nelle vesti e non solo, era difficile ottenere colori forti e duraturi. I colori conferivano valore all’abito che ne ricavava grande visibilità. Accostamenti che oggi giudicheremmo sgarbati erano invece assai apprezzati all’epoca e spesso da noi inattesi perché l’iconografia non attesta quello che invece testimoniano le 6.000 denunce fiorentine: solo l’intreccio delle fonti consente una visione meno parziale e in qualche caso permette di fare autentiche scoperte.

Immaginiamo che questo possa essere utile a chi fa rievocazione.

È certo che storici e  rievocatori devono aiutarsi. Elisa Tosi Brandi, una mia allieva (la seconda persona che si è laureata con me ormai molti molti anni fa e che ha continuato a collaborare) ed io abbiamo cercato di costruire un rapporto di fiducia con i rievocatori. Abbiamo lavorato insieme per anni a Rimini ed ora a Ravenna dove insegno “Storia e patrimonio culturale della moda” e dove spero si stabilizzi un punto di riferimento per la moda intesa come bene culturale. Abbiamo sempre cercato di offrire una sponda a chi lavora nel campo delle rievocazioni storiche.  Quest’anno ho organizzato a Ravenna una serie di conferenze, molto seguite, sulla moda al tempo di Dante intitolate: “Sguardi sulla moda al tempo di Dante” durante le quali abbiamo anche lanciato un laboratorio sul cappuccio di Dante. La ricostruzione materiale degli abiti non è di mia competenza, mi occupo di altro e relativamente all’epoca di Dante si può dire qualcosa di interessante a partire dal fatto che  nel 1299 venne promulgato dal Comune di Firenze un provvedimento che istituiva la multa preventiva in vista dell’emanazione di provvedimenti suntuari: è il primo caso attestato in Italia. Ritengo che  Dante ne fosse a conoscenza perché in quel momento svolgeva politica attiva e le restrizioni suntuarie facevano parte dei provvedimenti politici della parte popolare. Le leggi suntuarie  vanno calate in un contesto di lotta politica e considerate strumenti di lotta.

  • Continuando a parlare di moda quella odierna, soprattutto l’Alta pensa a trasmettere un messaggio, un esempio è la giacca di Gucci con la scritta “My body my choice”, nel Medioevo i vestiti mandavano un messaggio?

Certo che c’era un messaggio anche allora e aveva a che fare con la parte politica, con l’appartenenza sociale ma anche con il gusto, con l’amore per il colore e per l’abbondanza.

Bellezza e privilegio si esprimevano attraverso grandi ampiezze, lunghi strascichi, abbondanza, dismisura. Ma era un messaggio anche l’uso della donna come manichino da esposizione, vetrina del privilegio: l’intera famiglia si rispecchiava nelle donne sontuosamente ornate che partecipavano a occasioni sociali rilevanti. Le belle vesti testimoniavano anche  le capacità degli artigiani spesso ideatori non solo esecutori di abiti straordinari. Per le donne era una forma di visibilità, una delle poche loro consentite. Proprio a questo proposito potrei introdurre qualche considerazione su Christine de Pizan (1365-1430 circa), una delle figure femminili di cui mi sono occupata a più riprese e certo quella che sento più vicina.

Si tratta della prima intellettuale di professione, una donna laica, di origine italiana la cui cultura è di indubbia matrice italiana ma che è vissuta in Francia per quasi tutta la vita. Ha scritto una serie di trattati e praticamente in tutti i casi ha segnato un primato: la prima a scrivere un’opera di cavalleria e la prima storica di professione in quanto autrice della biografia di Carlo V (1338-1380), forse il sovrano più amato di Francia. Continua a strabiliarmi il fatto che la biografia del sovrano sia stata commissionata a lei con tutti gli intellettuali importanti che gravitavano intorno all’Università di Parigi. Forse è stata scelta proprio perché donna immaginando che ciò avrebbe reso particolarmente attraente il suo trattato e dunque più noto e diffuso. Sta di fatto che si tratta di una figura di grandissimo interesse e molto amata da chi si occupa di questioni di genere in quanto autrice de “La città delle dame”. I suoi trattati erano regolarmente e riccamente miniati e lei controllava le miniature dei testi che uscivano dal suo Scriptorium. In queste miniature Christine è rappresentata e resa riconoscibile da una sorta di “divisa da intellettuale”, dagli abiti cioè che  scelse di indossare che erano diversi da quelli che avrebbe potuto sfoggiare in quanto moglie di un notaio. Scelse abiti legati alla sua funzione, al suo ruolo non alla sua famiglia. Per dire a cosa potevano servire gli abiti!

  • La società cittadina dell’epoca, poteva, da un punto di vista puramente economico, essere negativamente influenzata da queste spese extra lusso di alcune famiglie? La situazione, poteva portare alla bancarotta una data famiglia e generare un circuito negativo nell’economia cittadina?

Gli abiti disciplinati dalle leggi suntuarie erano capi importanti, d’apparato, diciamo così, e di alto costo. Dotare una figlia convenientemente, e cioè secondo le regole che valevano per ogni status, comportava spese enormi.

Le leggi suntuarie avevano non solo la finalità di rendere visibili le differenze ma anche di contenere gli esborsi in questo settore arrivando a chiedere  agli artigiani di rifiutare commesse se le richieste provenivano da persone il cui status non consentiva di esibire questo o quell’abito.

Ciò comportava il rischio di soffocare la creatività ed anche il libero commercio, di danneggiare gli artigiani ed anche i commercianti, i produttori. Il rischio c’era ed è difficile dire se le rare reazioni di artigiani erano dovute al fatto che queste leggi,  una volta enunciate, non erano poi così cogenti, oppure se, tutto considerato, si ritenesse al tal punto importante il progetto politico del quale le leggi erano emanazione da accettare un rallentamento del mondo produttivo ed artigianale. Sta di fatto che è difficile dire se queste leggi hanno davvero rallentato o addirittura compromesso il mondo produttivo. Certamente molto dipende da quanto esse furono realmente rispettate. Esse regolarmente prevedevano multe e sistemi di controllo e intendevano promuovere la collaborazione cittadina invitando alla denuncia di chi non rispettava le norme. Infatti il tema della denuncia (o delazione?) è uno dei miei più recenti argomenti di approfondimento. Ho promosso una ricerca collettiva che ha prodotto un libro intitolato “Riferire all’autorità” (Viella 2020). In esso ho pubblicato un saggio proprio sul sistema delle denunce previsto dalle leggi suntuarie. I legislatori invitavano a denunciare e promettevano parte della multa ai denuncianti: dunque tenere gli occhi aperti conveniva! Il tema mi incuriosiva e dall’apporto di un piccolo gruppo di carattere internazionale è nato un libro su denuncia/delazione che ha affrontato un tema diventato all’improvviso d’attualità nel calamitosi periodo del coronavirus. Oggi si invita la cittadinanza a collaborare con chi cerca di difendere il bene pubblico anche denunciando i trasgressori che rischiano di comprometterlo.

Come spesso accade, vicende anche molto lontane nel tempo hanno echi nella contemporaneità e comunque  i problemi del tempo di chi conduce ricerche condizionano la sensibilità dello storico e incidono sui suoi interessi e sulle domande che egli pone alle fonti. Ciò mi sembra valere anche per il tema della violenza nei riguardi delle donne.

  • Il tema della violenza femminile come era percepito nel Medioevo? C’era la stessa urgenza che c’è adesso?

La violenza nei riguardi delle donne ha ispirato studi recenti (“Violenza alle donne. Una prospettiva medievale”, a cura di Gabriella Piccinni, Anna Esposito, Franco Franceschi, Il Mulino 2018). Era una pratica presente allora come lo è ora ed anche allora vissuta dalle donne con enorme sofferenza. Del resto perché avrebbe dovuto essere altrimenti?

Disponiamo della testimonianza significativa di Christine de Pizan. Nel suo trattato “La città delle dame” immagina una città ideale cinta di mura, dove possono trovare rifugio le donne oggetto di disprezzo che non meritano, e lei dedica a queste donne disprezzate dei ritratti, in sostanza dei medaglioni di donne più o meno illustri, inframmezzati con considerazioni di sconcertante interesse e attualità. Ad esempio se ci fosse la possibilità di far crescere le bambine come i bambini queste saprebbero fare le stesse cose: ciò detto da una donna vissuta a cavallo fra il Trecento e il Quattrocento. Parla anche dello stupro diffidando dal pensare che non fosse un’esperienza davvero drammatica per le donne trattandosi a ben vedere di una delle peggiori forme di tortura.

  • C’è una evoluzione del ruolo della donna nel corso del Medioevo? Se era una donna aristocratica o una popolana, oppure una prostituta. Che ruolo avevano nella società queste donne?

Il mondo delle donne è sfaccettato e niente deve essere dato per scontato. Fra alto e pieno Medioevo c’è stata una maggiore disponibilità, una maggiore apertura a certi protagonismi femminili che dal pieno Medioevo in poi è meno evidente e visibile.

Un caso emblematico è quello di Matilde di Canossa che si colloca al confine fra pieno e basso Medioevo. Matilde è stata protagonista a tutto tondo, quasi re, una donna potente personalmente come del resto lo era stata sua madre Beatrice. Matilde non fu madre (anche se sposata due volte) e con lei finì la storia dei Canossa. Non può essere un caso che una figura come la sua si presenti in quel momento e che dopo non se ne trovino di analoghe.

Al tempo dei Comuni che segnano una delle fasi più appassionanti della storia medievale, matriciale di molte esperienze anche della contemporaneità, le donne appaiono in secondo piano anche nel mondo delle corporazioni, quasi invisibili. Lavoravano tutte o quasi in quasi tutte le botteghe ma di loro non ci sono che rare tracce nelle Matricole o negli Statuti. Il mondo comunale che tutto intendeva mettere in forma e prevedere non prevedeva un protagonismo riconosciuto delle donne. Eppure lavoravano, producevano, commerciavano. Di fatto operavano ma in maniera scarsamente riconosciuta. Studi recenti ipotizzano la convenienza per le donne di una situazione del genere che dava loro margini di libertà, possibilità di guadagni un po’ più sostanziosi.  Difficile dire come fosse vissuto il fenomeno della mancata visibilità di un lavoro femminile presente, attivo e diffuso anche se dotato di caratteristiche che risentivano dei frequentissimi impegni procreativi. Noi oggi posiamo su questo fenomeno uno sguardo che vede nella mancata iscrizione/inclusione all’arte qualcosa di negativo.

Non si può escludere che ci sia stato un interesse delle donne a mantenersi un po’ ai margini ma certo dobbiamo ben guardarci dal forzare le interpretazioni per farle entrare entro schemi odierni.

  • La BBC sta facendo uscire una nuova serie tv dedicata ad Anna Bolena che sarà interpretata da un’attrice che dai tratti somatici africani, quando sappiamo con sicurezza che la moglie di Enrico VIII aveva una pelle chiara. Siamo di fronte a una società che non accetta se stessa, il suo presente e quindi vuole intervenire nel suo passato, cancellandolo. La cifra è quella dell’abbattimento delle statue di Colombo fino a questi esempi. Secondo lei c’è qualcosa di sbagliato?

L’angolo visuale dettato dai nostri tempi può servire a proporre provocatoriamente parallelismi fra quella società e la nostra. Per capire il rapporto con l’ ”altro” si può ragionare su chi è “altro” per noi oggi. Ma la storia è prima di tutto cronologia e bisogna rispettare le distanze.

Occorre insegnare a ricondurre ai secoli e alla loro sequenza gli eventi accaduti in un ben preciso ordine. Non è questione di pretendere dagli studenti, per verificare il discorso a partire dalla preparazione dei nostri allievi, date esatte (sempre utili a sapersi) ma di capire che gli accadimenti sono frutto di precedenti che vanno correttamente individuati, collocati, esaminati criticamente e non forzati o mischiati. Questo fra la differenza fra storia e fiction. Ma ciò non implica pedanti ricostruzioni, non è necessario per essere corretti diventare noiosi, La storia è eccitante in sé, sorprendente, piena di colpi di scena ma esige metodo, rigore, disciplina e insieme capacità di restituzione non tediosa.

Si rischia di fare un uso eccessivamente strumentale della storia.

L’uso politico della storia c’è sempre stato, basti pensare all’interpretazione della dominazione longobarda compiuta da Ludovico Antonio Muratori e da Alessandro Manzoni sulla base della conoscenza degli elementi storici ma anche delle loro posizioni politiche e sensibilità. Con gli stessi elementi si possono proporre diversi montaggi.

Occorre insegnare a decostruire le ricostruzioni, ad analizzarle criticamente e a confrontarle, se differenti quando non addirittura opposte. Da questo punto di vista gli usi politici della storia  possono essere utili a ripensare ai fatti storici e ad esaminarli accuratamente per capire dove sta, se c’è, la forzatura nell’uso politico proposto.

Occorre riconoscere e citare le fonti e rendere trasparente la lettura che se ne è fatta. Le  note a pie’ di pagina sono una garanzia!

  • Concludiamo la nostra chiacchierata con un’altra domanda facile, può darci qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?

Sono grata della vostra curiosità, ho appena consegnato all’editore Laterza un piccolo libro che s’intitola “Madri, madri mancate, quasi madri. Sei storie medievali”; sono tutte storie di cui più d’uno si è occupato; quella di Dhuoda, di Matilde di Canossa, di Margherita Datini, di Caterina da Siena, di Christine de Pizan e di Alessandra Macinghi Strozzi. Si tratta di figure femminili delle quali mi ha particolarmente interessato la loro dimensione di madri o madri mancate ma anche madri ideali. Di Matilde di Canossa solo di recente si è messo in luce il fatto che non è riuscita ad essere madre:  le nacque una bambina ma morì quasi subito. Di Caterina da Siena, che ha scelto di non sposarsi (o meglio di sposare Cristo),  ho voluto riflettere sulla dimensione di grande madre italiana che raccomanda, esorta e anche minaccia indicando con sommessa perentorietà (notare l’ossimoro) la via da seguire. Di Christine de Pizan mi sono occupata in passato ma non avevo mai prestato interesse al suo ruolo di madre. Per dire come temi già noti possono avere aspetti sconosciuti o poco approfonditi che vale la pena esplorare. Concludendo: le fonti sono il limite e la risorsa degli storici ma è la forza delle ipotesi formulate da questi ultimi che consente  di fare sempre nuove scoperte rendendo questo lavoro uno dei più belli che io conosca. 

 

Ringraziamo di cuore la Professoressa Muzzarelli per il tempo che ci ha dedicato.

Giulia Panzanelli, Andrea Feliziani

 

Bibliografia:

Muzzarelli Maria Giuseppina, Le regole del lusso. Apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’Età moderna, il Mulino, Bologna 2020.

Muzzarelli Maria Giuseppina, Nelle mani delle donne. nutrire, guarire, avvelenare dal medioevo a oggi, Editori Laterza, Roma- Bari 2013.

Muzzarelli Maria Giuseppina, Breve storia della moda in Italia, Il Mulino, Bologna 2011.

Muzzarelli Maria Giuseppina, Un’italiana alla corte di Francia. Christine de Pizan, intellettuale e donna, il Mulino, Bologna 2007.

Muzzarelli Maria Giuseppina, Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo, il Mulino, Bologna 2005.

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Written by : Redazione

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