Come ser Galvano fu sul punto di stancarsi della ricerca del Sangrail, e di un suo sogno meraviglioso

 

Separatosi dai compagni, ser Galvano cavalcò da Pentecoste a san Michele senza incontrare nemmeno la decima parte delle avventure che gli sarebbero piaciute. Perciò, quando un giorno si imbatté in ser Ector di Maris, dopo essersi scambiati affettuosamente il saluto, cominciarono a lamentarsi insieme.

«A dire il vero sono quasi stanco di questa ricerca» disse ser Galvano. «E poi non ho più voglia di continuare a viaggiare in paesi stranieri.»

«La cosa che mi stupisce è che ho incontrato una ventina di altri compagni e tutti avevano lo stesso rammarico» replicò ser Ector.

«Mi chiedo dove sia vostro fratello ser Lancillotto» aggiunse ser Galvano. «Non ho saputo nulla di lui, e nemmeno di ser Galahad, di Percival e di ser Bors.»

«Lasciamoli stare, perché quei quattro non hanno pari. Ser Lancillotto, poi, se non fosse per una sola pecca sarebbe superiore a ogni altro. Ma così come stanno le cose, è proprio come noi; solo che si assume le fatiche maggiori. Comunque, se quei quattro si sono incontrati, di certo non vorranno nessuno con sé. Se falliranno loro nella ricerca del Sangrail, gli altri avranno solo perduto il proprio tempo.» Cavalcarono insieme per più di otto giorni, ma un sabato, essendo giunti per caso a un’antica cappella abbandonata e apparentemente disabitata, smontarono da cavallo, appoggiarono le lance alla porta e entrarono per pregare. Poi sedettero sugli stalli e si misero a discorrere di questo e quello finché furono sopraffatti dalla stanchezza e si addormentarono. In sogno, vissero entrambi straordinarie avventure.

A ser Galvano parve di trovarsi in un verde prato fiorito dove centocinquanta tori erano intenti a mangiare da una rastrelliera. Avevano un aspetto feroce ed erano tutti neri salvo tre, particolarmente belli, due dei quali mostravano un candore immacolato, mentre il terzo portava sul bianco una macchia nera. Questi ultimi tre erano legati con due solide corde. I tori neri si dicevano l’un l’altro: «Andiamo a cercare un pascolo migliore!». E alcuni si allontanavano. Al loro ritorno erano talmente macilenti che non riuscivano a reggersi in piedi. Dei tori bianchi, invece, ne tornava uno solo; al suo avvicinarsi, i neri prendevano a muggire come se stessero soffocando. Infine, se ne andavano tutti per strade diverse.

 

Della visione di ser Ector, e come questi giostrò con ser Ivano il Bastardo, suo fratello d’armi per giuramento

Ser Ector ebbe invece una visione molto diversa: gli sembrava che suo fratello Lancillotto e lui stesso si alzassero da un seggio e balzassero a cavallo dicendo: «Andiamo a cercare ciò che non troveremo.» Gli pareva poi che un uomo percuotesse ser Lancillotto, e che dopo averlo spogliato e rivestito con un abito cosparso di nodi, lo issasse su un asino. Ser Lancillotto cavalcava fino alla fonte più bella che si fosse mai veduta, dove smontava e cercava di bere; ma si era appena chinato che l’acqua si abbassava ed egli non riusciva a raggiungerla, allora si voltava e tornava da dove era venuto. Intanto al dormiente sembrava che egli stesso giungesse a cavallo nella casa di un uomo ricco in cui si stava festeggiando un matrimonio e che un re gli dicesse: «Questo non è posto per voi, signor cavaliere». Così egli si ritrovava sul seggio su cui era stato seduto all’inizio del sogno.

Dopo poco Galvano ed Ector si svegliarono e si raccontarono stupiti le visioni che avevano avute.

«A dire il vero» osservò ser Ector «non sarò contento finché non avrò avuto notizie di mio fratello.»

Stavano ancora parlando seduti sugli stalli nella cappella, quando videro apparire un braccio coperto fino al gomito di sciamito rosso cui era appesa una redine di povera fattura e che stringeva, nella mano chiusa a pugno, un grosso cero che ardeva chiaro. Il braccio passò loro davanti e scomparve nella cappella, mentre dall’alto una voce diceva:

«Cavalieri di poca fede spinti dal malanimo, non potete partecipare alle avventure del Sangrail.»

«Avete sentito, Ector?» chiese Galvano al compagno.

«Perfettamente» gli rispose l’altro. «Ora andiamo da un eremita e facciamoci spiegare il significato delle visioni; mi sembra che la nostra sia fatica sprecata.»

Stavano percorrendo una valle, quando incontrarono uno scudiero a cavallo di un ronzino.

«Sapresti dirci dove potremmo trovare un eremita?» gli chiese Galvano, dopo averlo salutato con cortesia.

«Ce n’è uno qui vicino. Sulla montagna, che non è molto alta, ma tanto scabrosa che i cavalli non riescono a scalarla, troverete la povera casupola dell’eremita Nacien, l’uomo più santo della contrada. Ma dovrete andare a piedi.» Avevano appena lasciato lo scudiero ed erano ancora nel fondovalle, allorché si imbatterono in un cavaliere armato che li sfidò a giostrare.

«In nome di Dio, dacché ho lasciato Camelot non è che il secondo che mi invita a battermi!» esclamò ser Galvano.

«Lasciatelo a me» lo pregò ser Ector.

«No, solo dopo che avrò perduto! Allora non mi dispiacerà!»

Ser Galvano e lo sconosciuto si prepararono e poi si galopparono incontro veloci: spaccarono gli scudi e le cotte di maglie, e furono entrambi disarcionati; ma mentre ser Galvano, ferito al fianco sinistro, cadeva spezzando la lancia, l’altro rimase al suolo con il petto trafitto da parte a parte. Poi Galvano si rialzò, portò la mano alla spada, si mise lo scudo davanti al corpo e disse:

«Dovrete darvi per vinto, altrimenti sarò costretto a uccidervi.»

«Ah, signor cavaliere, sono già mezzo morto!» rispose però l’avversario che non era più in grado di fronteggiarlo.

«Siate tanto cortese da trasportarmi in un’abbazia perché possa ricevere il Creatore.»

«Non conosco monasteri nei dintorni, signore» replicò Galvano.

«Issatemi sul vostro cavallo. Vi guiderò io.»

Galvano lo fece montare in sella, si sedette dietro di lui per sostenerlo e lo trasportò in un monastero dove il ferito, una volta disarmato e ricevuta la comunione, lo pregò di estrargli il troncone della lancia.

«Chi siete?» gli chiese allora Galvano.

«Il mio nome è Ivano il Bastardo; sono figlio di re Uriens e compagno della Tavola Rotonda alla ricerca del Sangrail» fu la risposta. «Ero tuo fratello d’armi per giuramento e ora, Dio ti perdoni, mi hai ucciso: sarà tramandato per sempre come un cavaliere mise a morte un suo fratello d’armi.»

«Ahimè, che sventura!» esclamò Galvano.

«Non ti crucciare: avrei dovuto morire comunque, e la morte non mi sarebbe potuta arrivare per mano più onorata» gli disse allora Ivano. «Quando tornerai a corte, ricordami al mio signore re Artù e a quanti saranno sopravvissuti e, in nome della fratellanza che ci ha legati, non mi dimenticare mai.»

Allora Galvano e ser Ector scoppiarono in lacrime; poi lo stesso Ivano, aiutato da Galvano, estrasse il troncone di lancia e la sua anima abbandonò il corpo.

 

Martina Michelangeli x Medievaleggiando

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Written by : Redazione

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