È con piacere che oggi siamo in compagnia della ricercatrice Angelica Aurora Montanari, laureata in Storia Medievale all’Università di Bologna e addottorata all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Ha svolto esperienze di studio, didattica e ricerca presso l’Université catholique de Louvain (Belgio), l’Universidade Federal Fluminense de Niterói (Brasile), le Università di Cambridge, Ostrava e Bologna.

Si occupa di storia del corpo nel Medioevo, storia culturale del Medioevo, studio dei manoscritti miniati e indagini di carattere transdisciplinare basate sul confronto tra la documentazione scritta e le analisi effettuate sui resti scheletrici.

Tra le sue pubblicazioni i libri: Il fiero pasto, antropofagie medievali (Il Mulino, 2015) e Cannibales. Histoire de l’anthropophagie au Moyen Âge (Les Éditions Arkhê, 2018).

Noi l’abbiamo incontrata in occasione del Festival del Medioevo, con un interessante intervento sui cannibali medievali. Argomento decisamente poco noto e studiato in ambito accademico, oggi lo approfondiremo insieme dal punto di vista storico ed antropologico per i nostri lettori. 

 

Buongiorno dott.ssa Montanari, è un piacere ritrovarci di nuovo e la ringraziamo per averci concesso questa intervista. Solitamente siamo abituati a pensare e studiare il Medioevo sotto altri aspetti: guerre, potere, dissidi religiosi, … mentre lei invece ha scelto di approfondire un argomento molto particolare. Che cosa l’ha portata a scegliere l’antropofagia?

L’interesse verso la storia del corpo e la convinzione che attraverso lo studio del trattamento della salma sia possibile comprendere molto dello stile di vita e dell’immaginario dei membri di una comunità.

Quando ero studentessa all’Università di Bologna lessi un articolo sul giornale Medioevo intitolato Cosa bolle in pentola, dove venivano citati alcuni casi di cannibalismo. Non esistevano libri sull’antropofagia nell’Europa medievale in quegli anni. Le notizie che si potevano reperire in merito provenivano da qualche sparuto saggio dedicato a tematiche specifiche e molto circostanziate. Incuriosita dall’insolito argomento scelsi di occuparmene per la tesi di laurea. Da lì è cominciato il mio viaggio alla scoperta dei divoratori di carne umana attraverso cronache, trattati medici, exempla, memoriali di viaggio, testi letterari e iconografie dei manoscritti. Alla fine ho scoperto molte più menzioni di cannibalismo di quante mi aspettassi! Così ho continuato lo studio durante il dottorato, trasferendomi in Francia. Di tempo ne è passato e ho avuto modo di ampliare i miei interessi di ricerca, ma l’antropofagia resta sempre uno dei miei temi preferiti per la varietà di testimonianze che è necessario prendere in esame al fine di indagare un fenomeno mai apertamente normato e codificato. 

 

A primo impatto il cannibalismo viene quasi sempre associato a popolazioni lontane nel tempo e nello spazio e definisce un’alterità quasi disumanizzata. Grazie alle sue ricerche però, veniamo a conoscenza dei casi di cannibalismo anche nell’Europa Medievale. Cosa rappresentava il cannibalismo per i gruppi che lo praticavano? Che significato aveva per i legami sociali?

Studiare il cannibalismo in Europa significa rintracciare nel nostro passato usanze che siamo soliti attribuire a misteriosi abitanti di lontane contrade. Si tratta di un procedimento denso di risvolti perché permette di mettere in evidenza che l’alterità culturale è soltanto una questione di punti di vista.

Nell’Europa Medievale coesistettero molteplici forme di antropofagia il cui significato è decifrabile soltanto in relazione al contesto che ha accolto l’incorporazione. Cronache e annali riportano la fame intercorsa nei momenti drammatici di carestia che avrebbe spinto al consumo di carne umana. In simili circostanze il cannibalismo ha un mero scopo nutritivo: davanti ai morsi della fame siamo tutti potenziali antropofagi!

Sui significati attributi invece alla consumazione dei corpi dei defunti si può far riferimento a quanto narrato nelle memorie dei viaggiatori che vennero a contatto con presunte comunità necrofaghe orientali. I rituali funebri cannibalici furono percepiti dai cristiani come costumi “ferini”, connessi alla “sauvagerie” di popoli estranei al mondo che si riteneva “civilizzato”. Talora le descrizioni dei consumatori di carne umana furono invece volte a mostrare la ferocia dei nemici affrontati in battaglia, come nel caso delle divorazioni attribuite ai musulmani. 

Ma ancor più diffuso del cannibalismo rituale e nutrizionale è stato nel Medioevo l’impiego terapeutico dei resti umani: alla base di questa pratica risiede una concezione della cura del corpo basata sulla possibilità di incorporare la forza vitale di un altro essere vivente e sulle affinità simpatetiche tra le sostanze: il simile cura il simile.

Attestati sono inoltre i rituali di violenza simbolica post mortem, all’interno dei quali l’antropofagia assume il valore di supremo oltraggio alla salma del nemico ucciso.

Nel quadro dei contesti legati alla vendetta e alla fame i contemporanei lessero il ricorso alla carne umana come la conseguenza di una vendetta divina, destinata ad avere un effetto socialmente disgregante. Mi spiego meglio. La distruzione dei legami comunitari si presenta, nell’ottica offerta dalle testimonianze, in forme più o meno gravi: l’esocannibalismo, cioè il cibarsi di individui esterni alla comunità, come viandanti e pellegrini; l’endocannibalismo, più problematico perché comporta il nutrirsi dei membri interni alla comunità ed infine l’omicidio cannibalico interfamiliare, e in particolare l’antropofagia materna, che incarna la fine di ogni legame di solidarietà tra individui, perché lede la cellula base della struttura sociale. La divorazione di carne umana sconvolge inoltre la gerarchia alimentare stabilità dalla divinità, è per questo considerata un atto pericoloso, in grado di sovvertire l’ordine naturale e sociale, la cui origine è da ricondurre all’ira celeste contro i peccatori. 

 

Durante il Festival del Medioevo lei ha discusso un intervento sui cannibali medievali, prendendo le mosse da un famosissimo passo di Dante «La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto» (Inferno XXXIII, 1-3). Tutti noi lo ricordiamo per la sua drammaticità, ma rappresenta forse episodi accaduti realmente? Per chi non ha avuto il piacere di ascoltarlo, può riassumerci le parti salienti?

In occasione del VII centenario dalla morte di Dante Alighieri, ho aperto il mio intervento al Festival del Medioevo mostrando le suggestive immagini del «fiero pasto» che accompagnano i codici miniati della Commedia: Ugolino della Gherardesca, immerso nella ghiaccia del lago Cocito, rode il cranio dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Dalla tragedia pisana siamo passati a discorrere dei riferimenti all’antropofagia che costellano le opere dantesche: il tema del cuore mangiato nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core e nella Vita Nuova, dove Beatrice si pasce del cuore ardente del poeta, o ancora il riferimento a «quando Maria nel figlio diè di becco» del Purgatorio (XXIII 28-30). Qui Dante richiama un episodio di antropofagia materna narrato nel Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio, dove si descrive l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C. ad opera di Tito. Ho dedicato poi un rapido accenno agli ibridi e ai mostri divoratori dell’Inferno: le Arpie, solite nutrirsi degli alberi in cui si sono mutati i suicidi; il Minotauro, ghiotto di carne umana secondo i commenti; i richiami antropofagi presenti nell’aggressività della lupa e di Cerbero che “graffia li spirti, ingoia e isquatra”; le bocche Luciferine che maciullano i peccatori. Per finire ho considerato quali usanze possono avere ispirato Dante, inducendolo a lasciare nei suoi testi le tracce di un sostrato di leggende e di pratiche cannibaliche di lunga durata. 

 

A questo punto viene da chiederci, quali erano i contesti storici e socio-culturali medievali in cui venivano praticati atti di cannibalismo? Si parla di comunità isolate o erano più diffusi di quanto non pensassimo in Europa? Esistevano casi in cui la pratica veniva “normalizzata”, cioè socialmente accettata? 

Gli scenari degli episodi di antropofagia comprendevano un insieme estremamente eterogeneo di situazioni.

La collocazione geografica varia da piccoli villaggi a vaste zone spopolate colpite dalle carestie, ai contesti di guerra come le zone cinte d’assedio, ai territori urbani che furono teatro di moti insurrezionali, ai luoghi di cura, a quelli di preparazione, di vendita e di uso dei medicinali ricavati dal corpo umano.

A seconda della funzione dell’atto divoratorio il fenomeno poteva interessare settori diversi della popolazione: le fasce meno abbienti erano certamente più soggette alle conseguenze drammatiche della penuria alimentare, ma i rituali di oltraggio videro spesso coinvolti, come vittime o come carnefici, membri di famiglie in vista e personaggi politici di rilievo. 

Un’alta concentrazione di episodi di antropofagia rituale è documentata nelle città del centro nord dell’Italia dal XIV al XVI secolo. Questa densità di casi può essere messa in relazione con l’alta frequenza di pratiche aggressive e di violazione dell’integrità corporea che caratterizza quest’ambito. La divorazione compare solitamente all’apice di un violento rituale infamante che include processioni derisorie, svestizione della vittima, saccheggi e roghi di documenti, impiccagioni, squartamenti, decapitazione, amputazioni simboliche di arti, impiccagione per i piedi, trascinamento, dissotterramento ed esposizioni di membra umane. A scatenarlo sono soprattutto episodi di tirannicidio, ma anche congiure, rivolte, punizioni dell’attentatore del signore, scontri tra fazioni, lotte contro nemici esterni e vendette private.

Lo scempio cannibalico esulava tuttavia da ogni forma di codificazione e riconoscimento, distinguendosi per questo dalle altre forme di violenza previste dal cerimoniale penale e dagli statuti cittadini. Sull’antropofagia gravava infatti un profondo interdetto, silente ma indubbiamente condiviso, come mostrano le formule di condanna che accompagnano la descrizione delle pratiche. L’unico ambito dove il cannibalismo sembra trovare una sua forma di applicazione comunemente accettata, è quello medico farmacologico, fatta salve l’opinione di alcuni singoli medici come Ambroise Paré, il celebre chirurgo di Enrico II, da molti considerato il padre della chirurgia moderna. L’uso del corpo umano a scopo curativo conobbe, infatti, una forte diffusione, a fronte della bassa incidenza degli episodi di cannibalismo nutrizionale e rituale. 

 

Prima di analizzare il fenomeno da un punto di vista antropologico, vorremmo porle delle domande sul suo Il fiero pasto: Antropofagie medievali (Mulino, 2015). Nella sua introduzione sceglie di usare le parole antropofagia e cannibalismo, che al giorno d’oggi per noi sono sinonimi, con due accezioni separate. Perché questa scelta? Cosa può trovare in questo studio chi si approccia all’antropofagia per la prima volta?

Nel «Fiero pasto» ho indicato l’uso che avrei fatto dei termini cannibalismo e antropofagia per orientare i lettori all’interno della babele linguistico-disciplinare che caratterizza l’impego del “lessico divoratorio”: non c’è infatti, in questo campo, un accordo univoco tra i diversi settori della ricerca.

Personalmente ho preferito usare “antropofagia” e i suoi derivati nel senso letterale di “mangiare l’uomo” e cannibalismo per denotare l’atto del cibarsi di individui della propria specie.

Questa denominazione ha il vantaggio di accordarsi al criterio adottato dalla maggioranza delle discipline scientifiche, dove il termine cannibalismo designa la divorazione interspecifica. Si riescono così inoltre a includere, nell’uso del vocabolo antropofagia, i casi di animali che si sono cibati di carne umana e la divorazione mostruosa (mostri che incorporano esseri umani). 

Il saggio «Il Fiero Pasto. Antropofagie medievali» fornisce un panorama ampio della presenza dei temi divoratori nei documenti: non si tratta certo di un repertorio esaustivo, perché molti casi restano invisibili, ancora sommersi in testimonianze insondate. Il testo permette invece un primo approccio sistematico allo studio del fenomeno, fornendo delle ipotesi di ricostruzione delle pratiche e dell’immaginario nonché alcune riflessioni sulla funzione delle rappresentazioni cannibaliche all’interno del discorso politico.

 

Nel suo libro, poi, parla di casi di cannibalismo di “seconda mano”. Quando possiamo considerare un atto di cannibalismo di “seconda mano”? Qual era il suo significato simbolico?

Quella che siamo soliti, più tradizionalmente, definire “antropofagia indiretta” o “secondaria” si verifica nel caso di individui che si cibino di animali che hanno a loro volta mangiato resti umani.

Data la vicinanza tra uomini e animali di allevamento, anche nei luoghi di lavoro, simile circostanza non doveva essere insolita: possiamo ragionevolmente immaginare che si tratti di una congiuntura assai più frequente dei veri e propri episodi di cannibalismo nei contesti medievali. Nel 1363, ad esempio, un’ordinanza di Giovanni II il Buono vietava di macellare animali che si fossero nutriti nelle residenze dei barbieri, dove avrebbero potuto ingerire sangue, capelli o unghie recise. La normativa si estendeva poi a proibire a diverse categorie professionali, tra cui gli stessi barbieri e i chirurghi, l’allevamento del bestiame destinato a uso alimentare nel dubbio che potesse essersi cibato di residui piliferi, fluidi umani o carni amputate. 

Norme specifiche si trovano, per l’Alto Medioevo, nei penitenziali, ovvero i cataloghi di peccati e pene espiatorie destinati a guidare i confessori nell’esercizio del loro ministero: alcuni canoni ritengono la carne di animali che si sono nutriti di carne o sangue umano incommestibile, altri invece ne consentono il consumo in circostanze di grave penuria alimentare. Rigorose o meno, le precauzioni volte a evitare le involontarie ingestioni di materia umana costituiscono un dato utile ad escludere che l’antropofagia fosse comunemente accettata.

La mancanza di una formulazione scritta che sancisca le conseguenze di un atto di cannibalismo è quindi motivata dalla scarsa incidenza quantitativa del ricorso alla carne umana e dalla condivisione di un veto talmente profondo da non dover essere formulato. 

 

Se prima abbiamo parlato del risvolto specifico e pratico del fenomeno, adesso proveremo ad addentrarci all’interno delle sue sfumature più variegate. In che misura possiamo collegare, per esempio, le pratiche legate alle guarigioni miracolose delle reliquie dei santi al cannibalismo? Qual è il limite tra l’efficacia simbolica e la realtà di tali pratiche? 

Una pratica connessa al culto delle reliquie che si può avvicinare all’antropofagia terapeutica è il cosiddetto vinage. Si tratta di una procedura volta a ricavare dai corpi santi olii e bevande curativi, attraverso il prelievo dei veri e propri fluidi cadaverici oppure mediante l’aspersione delle reliquie con acqua o vino.

L’azione del vinage è prossima a quella delle cosiddette reliquie da contatto, frammenti sacri che risanano anche se provengono solo simbolicamente dal cadavere: l’erba cresciuta sulla tomba, la foglia di un albero caduta sul sepolcro, la polvere che lo ricopre, e così via. Dal XV secolo in avanti, ad esempio, fu in voga il portentoso vinage ottenuto filtrando col vino le ossa di sant’Antonio. Il liquido era usato nell’ospedale principale dell’ordine, a Saint-Antoine-en-Viennois, per curare diverse forme patologiche. Il vinage presenta numerosi tratti comuni la mumia, un medicinale attestato nelle farmacopee medievali per definire un unguento nerastro dagli incerti ingredienti a cui venivano attribuite eccezionali proprietà salvifiche. Il vocabolo denotava inizialmente una miscela di bitume e pece che si credeva usata dagli imbalsamatori antichi per trattare i cadaveri.

A partire dall’XI secolo, tuttavia, il termine mumia cominciò a indicare anche le deiezioni che filtrano dalla terra in cui sono sepolte le salme. Nei secoli successivi si perse progressivamente il significato originario del vocabolo che finì per definire in maniera esclusiva il liquame emesso dai corpi imbalsamati. Verso l’età moderna, addirittura, la mumia si cominciò a ricavare anche essiccando la vera e propria carne umana. 

Il principio simbolico che rendeva a loro modo efficaci tali farmaci si basa sull’intercessione del divino ad opera del corpo santo (nel caso del vinage) e sull’assimilazione della forza vitale di un altro organismo e l’affinità tra il corpo che cura e il corpo curato (per quando concerne la mumia). Riguardo alla concreta azione benefica di tali rimedi sugli organismi affetti da patologie, nel complesso nutro dubbi. Non si può escludere, tuttavia, qualche miglioramento dovuto all’effetto placebo o all’azione concomitante di altri ingredienti presenti nei composti cadaverici. Purtroppo non è agevole appoggiarsi alla documentazione medievale per ricavare dati precisi: le narrazioni relative alle guarigioni contengono una cospicua dose di elementi legati all’immaginario. 

 

Il simbolo, solitamente, è accompagnato dall’importanza del rituale. Vorremmo sapere, perciò, se il tipo di preparazione della carne era importante e qual era il suo significato simbolico. Inoltre, che rilevanza aveva il momento e la modalità del consumo?

I tempi, gli spazi e le modalità della divorazione sono elementi importanti, specialmente nell’ambito dei rituali di violenza, che si dipanano lungo le vie cittadine. Il supplizio cannibalico è quasi sempre perpetrato in un luogo significativo, come la piazza principale, oppure all’esterno della cinta muraria, per sottolineare l’espulsione del reo dallo spazio comunitario.

Spesso le testimonianze si soffermano sulle specifiche culinarie degli organi colpiti e sulle modalità dell’antropofagia sottolineando se le carni del nemico ucciso sono divorate crude o cotte, se sono o meno tagliate in piccoli pezzi, quali parti della salma vengono ingerite e se bere il sangue si sostituisce o aggiunge alla consumazione delle parti molli del cadavere. 

La crudità della carne, quando sottolineata, enfatizza la ferocia degli aggressori e l’animalizzazione della vittima, mentre la cottura pone l’accento sulla la novella veste alimentare della materia corporea. A essere divorati sono più spesso gli organi nobili come il cervello. Ancor più colpito è il cuore, che può essere mangiato o soltanto morso: si tratta di oltraggi simbolicamente equiparabili alla consumazione dell’intera salma. 

 

Possiamo considerare l’accusa di cannibalismo come strumento del potere? Ci sono casi in cui atti di guerra, conquista, repressione, ecc. sono stati giustificati solo perché il gruppo/popolazione in questione era associato/a al cannibalismo? 

L’accusa di cannibalismo può a tutti gli effetti essere considerata uno strumento di potere, un’arma impugnata a più riprese per demonizzare nemici e avversari, per avvallare condanne a morte, per stigmatizzare i non cristiani, per emarginare fasce vulnerabili della comunità, per giustificare azioni di conquista.

Un caso eclatante e noto è ad esempio, agli albori dell’epoca moderna, l’uso dell’antropofagia come argomento nella disputa tra Juan Ginés Juan Ginés Sepúlveda e Bartolomeo de Las Casas sulla legittimità della conquista delle terre americane conosciuta come controversia di Valladolid (1550): Sepúlveda addusse, tra le motivazioni volte a giustificare la guerra contro gli indios, i sacrifici umani e il cannibalismo. O ancora, sempre nel XVI secolo, i gesuiti portoghesi installati nel territorio brasiliano tendevano a offrire una raffigurazione demonizzata del cannibalismo, dove gli antropofagi-demoni rappresentavano le tribù che si opponevano alla dominazione dei loro connazionali.

 

Un’ultima curiosità. La stregoneria, come quello che stiamo analizzando, è un fenomeno scottante e “oscuro” quando si parla di Medioevo. Per quanto riguarda le pratiche rituali, esiste un collegamento tra stregoneria e cannibalismo? 

Assolutamente sì: tra i misteriosi ingredienti che a detta degli inquisitori avrebbero composto le pozioni di streghe e stregoni compare il grasso di bambino, mescolato a serpenti, anfibi, lucertole e ragni, e poteva essere utile – sostengono già alcuni tra i primi trattati redatti in Savoia verso la metà del Quattrocento – agli adepti delle sette per librarsi in volo.

ll corpo degli infanti si credeva infatti divorato nel corso di perverse e libidinose cerimonie oppure usato per preparare macabri polveri e unguenti capaci di produrre metamorfosi e spostamenti illusori, grazie ai quali le devote di Satana sarebbero state in grado di volare ai raduni, compiere malefici, rapire neonati, aggirarsi nelle tenebre in forma bestiale pur senza spostarsi fisicamente dal loro giaciglio. Ma se l’infanticidio e il cannibalismo erano associati all’operato di streghe e levatrici fin da tempi remoti, l’inedita variante tardo medievale delle imputazioni consiste nell’attribuzione dei riti antropofagici non più a singoli individui, ma a vaste e organizzate sette di adepti votati al demonio. La nascita di questo nuovo modello coincide con la genesi dello stereotipo del sabba. Il nuovo impianto di accusa fonde le imputazioni di cannibalismo precedentemente attribuite a cristiani, pagani, eretici ed ebrei e, passando da un capro espiatorio all’altro, acquisisce un aspetto composito e multiforme. 

 

Ringraziamo la dottoressa Montanari per questa bella intervista e per averci aperto le porte di un mondo “segreto”. Le auguriamo il meglio per i suoi prossimi impegni e di incontrarla nuovamente in contesti medievaleggianti.

 

Martina Corona, Orsolya Eniko Fuleki

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Written by : Redazione

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