Il canto di cui oggi ci occupiamo è il VI del Paradiso (terzo regno dantesco, in cui si collocano le anime pure che risiedono nell’Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio) che, come i precedenti sesti canti dell’Inferno e del Purgatorio, presenta una tematica politica.

Chiaramente, la differenza con gli altri due canti c’è e risiede nell’autorevolezza del regno e di colui che pronuncia l’invettiva. Stiamo parlando di uno spirito beato, di un’anima che sta lì a rappresentare Dio e il suo disegno provvidenziale. Ci troviamo nel II cielo di Mercurio, tra gli spiriti operanti per gloria terrena (sono i beati che in vita subirono l’influsso di Mercurio, che nel mito classico era il messaggero degli dei, essi operarono per la gloria terrena e quindi godono di un grado di felicità eterna)  e a parlare a Dante è l’imperatore Giustiniano, il quale pronuncia una lunga digressione sull’Impero Romano ed un’invettiva contro le due parti, Guelfi e Ghibellini, che si scontrano in nome di quel segno che dovrebbe essere portatore di pace: l’Aquila Imperiale. 

È un canto che lo si considera diviso in due tempi di diseguale misura: la prima parte interamente dedicata all’anima dell’imperatore Giustiniano, che nel suo discorso con Dante ripercorre le tappe dell’Impero Romano; la seconda parte breve ma ugualmente importante è dedicata all’anima di Romeo di Villanova, ingiustamente perseguitato e sgradito dai Provenzali, i quali non ammirarono le sue azioni. 

Il canto procede mediante la via del racconto epico, escludendo ogni tipo di ragionamento. Difatti è occupato interamente dal discorso dell’imperatore Giustiniano, caso unico nell’opera, che risponde alle due domande che Dante gli pone alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo. La ragione della lunga digressione, che ha avvio con il racconto della vittoria di Enea sui Latini, passando al periodo monarchico, per poi giungere a quello repubblicano, con la descrizione nel frattempo degli uomini più illustri del tempo, tra cui Cesare, Augusto, Tiberio ed infine Carlo Magno, con il quale Giustiniano termina il suo racconto del passato, inaugurando il tempo presente con colui che fu il restauratore dell’antico Impero Romano; è mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta dei Guelfi e Ghibellini nei confronti dell’aquila simbolo dell’Impero, in quanto i primi vi si opposero e i secondi se ne appropriarono per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che afflissero l’Italia del tempo.

La soluzione a questi mali è, secondo Dante, l’Impero universale, ovvero un’autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia. Proprio a tal proposito, Dante sceglie Giustiniano: fu colui che riunificò territorialmente l’Impero diviso da Costantino; ed inoltre con la sua opera di legislatore fondò l’unità istituzionale. Egli rappresenta così quell’aquila imperiale, simbolo di esattezza, giustizia ed esemplarità. Con questo lungo excursus della storia dell’impero e con l’invettiva contro Guelfi e Ghibellini, l’imperatore Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante. 

Il suo discorso continua con una sequenza calma e discorsiva, nella quale risponde alla seconda domanda di Dante, in merito agli abitanti del II cielo. Risiedono anime magnanime, coloro che compirono azioni nobili e giuste, non tuttavia per puro amore nei riguardi di Dio, ma perché  fossero ricordati tra i mortali per il grande onore. 

Così termina la prima parte del canto, per dare spazio alla piccola ma interessante seconda parte in cui Giustiniano indica un’anima. Quest’ultima è di Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario, che servì egregiamente il suo signore e fu da lui ricambiato con disprezzo e vergogna. Difatti, a causa di false calunnie degli altri cortigiani, fu costretto a lasciare la corte vecchio e povero. È interessante comparare la vicenda di Romeo con quella di Dante dal momento che la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, ricorda quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei Fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come è toccato, poi, ai Provenzali. 

L’umiliazione di questi personaggi è la stessa che subirà l’orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata da Cacciaguida nel canto XVII del Paradiso. In entrambi i casi la condanna che fa Dante è politica, a causa del malfunzionamento delle leggi e dell’assenza di una guida giusta. 

 

Lorena La Tela 

 

Per approfondire: 

La Divina Commedia-Purgatorio di Dante Alighieri, commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Oscar, Mondadori Libri.

  1. Bellomo, Contributo all’esegesi di Paradiso VI, in Italianistica 19, Italia (1990). 
  2. Nardi, In concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Saggi: Vita e Pensiero, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (1968). 

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Written by : Redazione

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