In questa intervista abbiamo avuto il piacere di porre alcune domande al professor Federico Canaccini. Docente di Filosofia medievale e paleografia all’Università Salesiana di Roma, i suoi studi vertono principalmente sulla storia comunale toscana e sulle lotte fra Guelfi e Ghibellini. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo: 1289. La battaglia di Campaldino (Laterza 2021), 1268. La battaglia di Tagliacozzo (Laterza 2019) e Ghibellini e Ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino: 1260-1289 (Istituto Storico italiano per il Medioevo, 2009). Collabora da anni con la rivista MedioEvo ed è spesso ospite del Festival del Medioevo di Gubbio.
Ringraziamo il professor Canaccini per averci concesso questa intervista. Iniziamo con una domanda di rito, perché ha deciso di specializzarsi nello studio del Medioevo e cosa l’affascina di questo periodo storico?
Anzitutto ringrazio io voi per questa bella occasione e applaudo alla vostra iniziativa di diffusione e divulgazione. Perché mi sono appassionato al Medioevo? Anzitutto perché la mia famiglia proviene da una valle, il casentino, ricca di castelli, pievi, teatro di una battaglia tra Guelfi e Ghibellini a cui partecipò anche Dante che soggiornò anche da esule a Poppi, Porciano e Romena. Già dall’infanzia fantasticavo sui cavalieri: poi la cosa ha preso contorni più seri (ahinoi!).
Il suo campo di studi è quello delle lotte fra Guelfi e Ghibellini. I due termini sono molto usati nel linguaggio giornalistico odierno, e non solo, per indicare una netta contrapposizione fra due schieramenti e, di riflesso, questo “bipolarismo” viene attribuito anche al Medioevo. Sappiamo però che questa non era la realtà storica, ci può fornire un quadro generale?
Il binomio guelfi e ghibellini è stato in effetti oggetto della mia tesi di dottorato. Dallo studio di allora emerse come i termini in questione si comportino come dei camaleonti, cambiando colore ma anche significato, seguendo più direttrici, sia nel tempo che nello spazio, ma anche se messi accanto o in contrapposizione ad un altro soggetto. Ecco che, come una reazione chimica, avvengono delle trasformazioni e, come asseriva Bartolo da Sassoferrato nel suo Trattato dei Guelfi e dei Ghibellini, si può essere in un luogo di una fazione, ma se ci si sposta altrove, ecco che magicamente si viene etichettati col nome del suo opposto. A dirla con una parola si potrebbero definire termini anguiformi, una sorta di sinusoide in continua mutazione, parole che non si riescono a tenere in mano, che non si riescono in fondo a descrivere in maniera stabile, benché a scuola ci abbiano insegnato che i Guelfi son per il Papa e i Ghibellini per l’Imperatore.
Possiamo anzitutto distinguere momenti diversi: la prima fase è legata alle origini dei nomi, in Germania. A questa altezza temporale in Italia ancora non se ne sa nulla di tutto ciò. È il Barbarossa che forse porta con sé il significato di Ghibellino come legato alla Parte imperiale e, di contro, chi gli si opporrà verrà associato al Guelfismo/Pars Ecclesiae. Ma è nel XIII secolo che i due termini assumono i significati legati alle fazioni: nati in Firenze, a sostituzione dei nomi dei preminenti gruppi familiari, tali nomi si diffusero in Toscana e poi in Italia, sovrapponendosi ai poteri universali, utili a creare alleanze intercittadine e utilissimi come etichette propagandistiche da sbandierare all’uopo. A confermarlo c’è un passo di Salimbene de Adam (1221-1288) il quale scrive che “a Firenze quelli della parte della Chiesa son chiamati Guelfi, quelli della parte dell’Impero Ghibellini”. Il frate aggiunge che proprio “da queste due, in tutta la Toscana le parti presero i nomi, e ancora li hanno”. Il francescano scriveva nel pieno del XIII secolo e visse durante quella che possiamo definire “l’età d’oro” del conflitto di fazione.
“Faccian li ghibellin lor arte sotto altro segno”, diceva Dante, ma per favore non sotto il simbolo dell’Impero con cui nulla hanno ormai a che spartire!
L’anno dantesco si è concluso e quindi rimanendo in tema di lotta fra guelfi e ghibellini, Le chiediamo di spiegarci chi erano i guelfi neri e quelli bianchi e come si arrivò a questo scontro?
Le fazioni dei Bianchi e dei Neri nacquero anzitutto a Pistoia dove, sul finire del XIII secolo emerge, tra tutte, la famiglia dei Cancellieri. Ai primi del Trecento, all’interno di questa famiglia, si sarebbe originata la nuova divisione. Ce lo racconta Dino Compagni il quale racconta che “queste due parti, Neri e Bianchi, nacquono d’una famiglia che si chiamava Cancellieri, che si divise: per alcuni congiunti si chiamarono Bianchi, gli altri Neri. E così fu divisa tutta la città”. A capo dei primi si distingueva Schiatta Amati, imparentato con la potente famiglia popolare dei Cerchi, di Firenze, mentre i secondi facevano riferimento a Simone da Pantano, amico di Corso Donati, futuro leader dei Neri fiorentini, e rappresentante della aristocrazia di antico lignaggio. Da Pistoia i leader delle due fazioni furono confinati in Firenze, ma ciò provocò l’espandersi a macchia d’olio di tale nuova divisione. Con tale mossa Pistoia offriva anche il pretesto a Firenze per una pesante e definitiva intromissione nella propria politica interna, divenendo ben presto una città satellite del guelfismo fiorentino. E mentre si verifica questo, scrive Isidoro del Lungo, la divisione in Bianchi e Neri “a poco a poco tutti trascinò seco, anche i religiosi, anche le donne”.
A Firenze, ai primi del Trecento, non ha praticamente senso parlare di Ghibellini, ma la città è ugualmente divisa, spaccata in profondità. Anzitutto abbiamo i Magnati, i nobili di antico lignaggio, e i Popolari, mercanti ricchissimi, anche più dei nobili. Poi, pur Guelfi, questi prendono posizioni più o meno intransigenti: adottando i nuovi nomi pistoiesi, i più estremisti adottano il nome dei Neri, gli altri di Bianchi, caratterizzati anche da una forte presenza popolare.
Rimaniamo a Firenze. Nelle fonti del 1200 si indicava come colpa della nascita del guelfismo e del ghibellinismo la lotta tra fazioni familiari del secolo precedente. Siamo di fronte ad uno specchio deformante della cronachistica duecentesca o la situazione fotografata dagli osservatori del Duecento era reale?
Forse un po’ di verità c’è nei racconti dei cronisti. Ciò che è meno credibile è che tutto sia nato dall’omicidio del povero Buondelmonte dei Buondelmonti: anzi, a ben guardare, sono gli stessi cronisti che dicono che anche prima di quell’episodio a Firenze c’erano divisioni e ogni tanto si verificava qualche episodio violento che contrapponeva gruppi familiari cittadini. I gruppi cittadini erano oramai già formati e schierati: i cronisti successivi dovettero però creare una vera e propria genesi per giustificare tutti i mali che ne sarebbero seguiti. Come comprendere altrimenti tutta quella lunga scia di sangue che avrebbe continuato a macchiare le vie di Firenze e dell’Italia ancora per tutto il Trecento? Per far questo venne creato un vero e proprio exemplum, esemplificato sul modello per eccellenza della nascita di tutti i mali: il peccato originale, alla base del quale naturalmente trionfa Satana e il Male. In un mio imminente lavoro ipotizzo proprio che i cronisti fiorentini ricalcarono l’episodio del Buondelmonti su quello ben noto a tutti del Libro della Genesi. Adamo fu ingannato con un frutto, Buondelmonte con una donna, ma entrambi peccarono irrimediabilmente per la prospettiva di un potere maggiore.
Nella cultura Risorgimentale esistevano i neo-guelfi e i neo-ghibellini che nulla hanno a che fare con il guelfismo ed il ghibellinismo medievali, il cui fazionismo muta fra XIII e XV secolo. Quale è la natura e l’utilizzo di questo due termini che possiamo definire medievalistici? Come nasce e perché?
I due nomi ebbero in effetti in Italia una ripresa vigorosa nel corso del Risorgimento e fu una ripresa decisiva nello stigmatizzare alcuni aspetti delle due fazioni, consegnandoci una visione assai distorta. Nel corso del Settecento gli imperatori erano austriaci e, anche se con modi differenti, facevano sentire a modo loro l’antica idea di una dipendenza tutt’altro che simbolica. Nel 1728 Francesco Maria Ottieri, cavallerizzo di Benedetto XIII, sentì la necessità di precisare che la sua nascita quale “suddito dell’Imperatore per alcuni Feudi imperiali” che lui possedeva al confine con lo stato della Chiesa, non gli imponeva “altra obbligazione se non quella d’un vassallaggio lontano così che mi lascia piena libertà”. Benché Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) avesse già notato come “i Guelfi stessi si staccavano dai papi, e i Papi dai Guelfi. Nella stessa guisa anche nelle città libere le famiglie Guelfe, se vi trovavano miglior conto, passavano alla parte Ghibellina, e scambievolmente le Ghibelline alla Guelfa”, ciò nonostante in piena età risorgimentale Cesare Balbo (1789- 1853) fu colpito dalla dipendenza deprecabile delle due fazioni da re stranieri, francesi o tedeschi e che poi le factiones avessero decretato la fine delle libertà comunali. Le aspirazioni patriottiche del Risorgimento trovarono nel 1200 una legittimità per alimentare le loro speranze di liberazione dell’Italia dal Kaiser e dal Papa Re che non aveva mai cessato di esercitare influenza sulla politica d’Italia, peraltro impedendone la sua unità. Nacque così una polemica assai appassionante tra chi difendeva la preminenza dello Stato Pontificio, i Neoguelfi, che desideravano una confederazione di stati sotto l’egida del Papa, e quanti, in antitesi si dissero Neoghibellini, chiaramente antipapali e anticlericali. Questi, però, si rifacevano non ai Ghibellini del Duecento, ma al Machiavelli e al Rinascimento, e ancor più all’anticurialismo del Sarpi e del Giannone. Gli aderenti al Neoghibellinismo erano per lo più democratici, interessati a rimuovere, specie nel Meridione, gli avanzi dell’Ancien Regime e fervidi sostenitori dell’Unità d’Italia tanto contro le pretese degli Asburgo quanto contro quelli del Papa.
Del Ghibellinismo medioevale, però, i Neoghibellini ereditarono la pars destruens, la presunta posizione anticlericale che, in questi decenni, dovette divenire stereotipata e peculiare anche del Ghibellinismo del Duecento, per giungere così inalterata sino a noi così da tramandare, nella vulgata nazional popolare, che i Ghibellini sono per l’Imperatore e i Guelfi per il Papa.
Come scritto nell’introduzione, Lei ha dedicato due saggi a due importanti battaglie medievali: Tagliacozzo (1268) e Campaldino (1289) che di solito sono considerate, insieme ad altre come quelle della Meloria, quella di Colle Val d’Elsa, importanti per la vittoria di uno o dell’altro schieramento. In questi due casi specifici cosa porta allo scontro, e cosa cambia per il campo sconfitto?
La battaglia dei Campi Palentini, detta da Dante in poi di Tagliacozzo, segnò la definitiva sconfitta della famiglia degli Hohenstaufen con la morte dell’ultimo svevo, Corradino, sceso in Italia, chiamato dai Ghibellini sbandati dopo la battaglia di Benevento (1266). La fazione filo-sveva e ghibellina aveva infatti già subito un grosso colpo con la morte in battaglia di Manfredi ad opera di Carlo d’Angiò: Tagliacozzo fu la definitiva conferma del successo angioino e del tramonto svevo. Da allora le sorti del Ghibellinismo furono definitivamente segnate, tranne alcuni colpi di coda come la presa della Sicilia dagli Aragonesi, rivendicata come di pertinenza sveva (la moglie di Pietro d’Aragona era infatti la figlia di Manfredi) e poi altre lotte nei primi del Trecento con l’arrivo di nuovi sovrani come Arrigo VII e Ludovico il Bavaro. Ma questa è un’altra storia.
Campaldino, invece, fu una vittoria tutta fiorentina e guelfa che non ebbe forse sul momento un risultato immediato se non il congelare una situazione con la rivale Arezzo. Le cause, se la nuova interpretazione che propongo è corretta, furono ampiamente cercate e create dai Guelfi fiorentini, così da poter creare un validio casus belli tale da giustificare una guerra da poter dipingere come giusta. La vittoria del 1289, infine, confermò certamente l’egemonia fiorentina e guelfa sulla toscana ma non fu una vittoria risolutiva: Arezzo vivrà infatti ancora una pagina di grandi successi negli anni Venti del XIV secolo col vescovo Guido Tarlati.
Nella guerra medievale, contrariamente a quanto si pensi, le battaglie campali erano rare. Come più volte affermato dal Professor Aldo A. Settia, la guerra medievale fin dai suoi esordi è una guerra di rapina. Secondo lei perché gli eserciti medievali sono così restii a scontrarsi in campo aperto? E che differenza c’è tra la guerra del periodo comunale e quello precedente?
Una battaglia campale era ed è sempre un rischio: non bastano i numeri a far vincere uno scontro, non bastano le armi avanzate, non basta la tecnologia. Talvolta a capovolgere la sorte di una battaglia può essere un fattore meteorologico, un tradimento, una mossa strategicamente vincente, un inganno. Tutto ciò i soldati e i condottieri del tempo lo sapevano bene. E ancor più, in epoca comunale, le città tentavano fino all’ultimo di evitare uno scontro in campo aperto, sapendo quanto potesse essere rischioso. Esisteva la diplomazia ed esisteva il denaro. Infine, in un momento in cui i commerci determinano e coincidono con l’ascesa economica delle città italiane, impegnare gran parte della popolazione in una campagna militare di settimane o mesi, poteva significare una sosta (talvolta fatale) per tuto il meccanismo degli affari.
Per riprendere la battaglia di Campaldino, i cronisti riferiscono più volte che i Magnati avevano una voglia matta di andare in guerra contro Arezzo, mentre ai Popolari, ai mercanti, costretti ad abbandonare il banco degli affari, “non parea”!
Concludiamo questa intervista chiedendo quali saranno i suoi prossimi impegni e progetti sul mondo comunale italiano.
Attualmente sto lavorando a diversi articoli scientifici alcuni dei quali riguardano anche la civiltà comunale: tra tutti mi piace segnalare una nuova interpretazione del Canto III del Purgatorio, il canto dedicato a re Manfredi. Partendo proprio da una serie di episodi storici, alcuni particolari di luoghi, si è prospettata una nuova e intrigante chiave interpretativa del famoso canto dedicato al re bello, biondo e di gentile aspetto. Quando sarà completo, magari potrà essere quella una bella occasione per incontrarci di nuovo!
Ringraziando il Professore Federico Canaccini per questa bella intervista, gli auguriamo il meglio per i Suoi progetti futuri.
Andrea Feliziani, Giulia Panzanelli