Le immagini dell’assalto al Campidoglio americano dello scorso 6 gennaio, in particolare le fotografie dello “sciamano” Jake Angeli dal corpo ricoperto di tatuaggi ispirati alla mitologia nordica (il frassino Yggdrasill e il martello Mjölnir), hanno riacceso i riflettori sul tema dell’uso politico dei simboli legati al medioevo scandinavo, spesso strumentalizzati dall’estrema destra e dai sostenitori del suprematismo bianco. Nonostante la sua attualità, tale fenomeno affonda le sue radici negli studi storici e filologici ottocenteschi di impronta romantica e nazionalista, che nel propugnare l’idea della superiorità dei popoli germanici (nordici compresi) ne esaltarono anche la presunta purezza razziale. In quest’ottica, fatta poi propria dal nazismo, la Scandinavia rappresentava la vera culla del germanesimo, che qui aveva potuto mantenersi puro sia sul piano culturale che razziale. Così il passato germanico, idealizzato e in sostanza reinventato, ha assunto un valore identitario per i suprematisti, che se ne servono tuttora per giustificare la loro pretesa di superiorità.

Accanto alle teorie suprematiste, in alcune zone degli Stati Uniti persiste un’altra tradizione di origine ottocentesca: quella di una presunta eredità (o identità) vichinga che, dall’epoca dei viaggi dei norreni in Nord America (il Vínland delle saghe), si sarebbe trasmessa fino agli americani di oggi. Alla base di tale teoria vi sono i racconti delle saghe islandesi medievali, in particolare la Saga di Erik il Rosso e la Saga dei Groenlandesi, che narrano le spedizioni e i tentativi di insediamento nel Vínland (laTerra del vino”, così chiamata per la presenza di piante di vite selvatica) compiuti all’inizio dell’XI secolo dall’islandese Leifr Eiríksson e da altri norreni dopo di lui. Stando alle saghe, in ultima analisi a determinare il fallimento di questi tentativi sarebbe stata la continua ostilità degli indigeni (gli Skrælingar,miserabili” o “disgraziati”), che rese troppo pericolosa la permanenza nel Vínland e convinse pertanto i coloni a ritornare in patria. Considerata a lungo con scetticismo, la storia delle esplorazioni impropriamente definite “vichinghe” in America è stata infine confermata dai ritrovamenti a L’Anse aux Meadows, sull’isola di Terranova (Canada), dove gli scavi condotti tra il 1961 e il 1968 hanno portato alla luce i resti di un insediamento scandinavo datato attorno all’anno 1000, l’unico insediamento europeo nelle Americhe precedente all’arrivo di Cristoforo Colombo.

Sin dalla prima metà dell’Ottocento storici, antiquari ed eruditi, come il danese C.C. Rafn, avevano comunque iniziato a cercare tracce archeologiche che potessero confermare il racconto delle saghe e dimostrare la presenza norrena in America. Tra le tante segnalazioni ricevute da Rafn, molte delle quali riguardanti presunte armi vichinghe, ad acquistare subito larga popolarità fu la cosiddetta “torre vichinga di Newport”, Rhode Island, che per via della sua struttura architettonica, somigliante ad alcune chiese medievali scandinave, fu additata come un’autentica struttura norrena del XII secolo. Questa interpretazione, tuttavia, non resse ad analisi più approfondite: la torre è infatti menzionata in un testamento inglese del 1675 come «mulino di pietra», mentre lo stile e le tecniche costruttive risultano identiche a quelle di altri edifici coloniali costruiti nel New England nel XVII secolo. La torre, pertanto, non poteva essere antecedente al 1640 o 1650.

Ma il più noto e al tempo stesso più contestato reperto “vichingo” in America è certamente la pietra runica di Kensington: rivenuta nel 1898 da un agricoltore svedese immigrato, Olaf Ohman, la pietra fu portata nel villaggio di Kensington, nella contea di Douglas (Minnesota), abitato da una comunità di immigrati scandinavi. Qui i segni incisi sulla pietra furono riconosciuti come rune, copiati e sottoposti all’attenzione di diversi docenti ed esperti di antichità norrene, i quali però considerarono l’iscrizione una falsificazione moderna. La pietra fu così dimenticata fino al 1907, quando catturò l’attenzione di Hjalmar Holand (1872-1963), avvocato e scrittore norvegese emigrato negli USA, il quale, convinto dell’autenticità dell’iscrizione, la fece tradurre come segue:

8 svedesi e 22 norvegesi in viaggio di esplorazione dal Vínland verso ovest. Ci eravamo accampati su 2 isolotti rocciosi a un giorno di viaggio a nord di questa pietra. Siamo stati fuori a pescare per un giorno. Quando siamo tornati a casa abbiamo trovato 10 uomini rossi di sangue e morti. AVM [= Ave Virgo Maria] salvaci dal male. Abbiamo 10 uomini in mare a badare alle nostre navi a 14 giorni di viaggio da quest”isola. Anno 1362.”

Secondo la narrazione costruita da Holand intorno a questa iscrizione, nel 1354 il re di Norvegia Magnus Eriksson avrebbe inviato una spedizione alla ricerca di un gruppo di coloni dispersi nel Vínland, tuttavia, dopo aver a lungo vagato in quella terra, nei pressi di un lago nell’odierno Minnesota i norvegesi sarebbero stati massacrati dagli indigeni. I sopravvissuti avrebbero quindi eretto una pietra runica in memoria dei compagni caduti, invocando la protezione della Vergine Maria. Grazie all’apologia di Holand, negli USA l’iscrizione (e la storia associata) è stata a lungo considerata autentica: tra il 1948 e il 1949 la pietra fu persino esposta alla Smithsonian Institution di Washington, e dopo la sua restituzione allo Stato del Minnesota fu collocata in un museo appositamente realizzato, il Runestone Memorial Park di Alexandria, di cui è ancora l’attrazione principale.

Sia la pietra che l’iscrizione, tuttavia, presentano una serie di criticità linguistiche, storiche, geologiche che hanno subito spinto la maggior parte dei runologi a ritenerla apocrifa. Ma la prova più schiacciante della sua contraffazione sono i numerosi documenti presentati come copie dell’iscrizione, che a un esame approfondito sono risultati essere varianti sperimentali, bozze preliminari, fatti da qualcuno che intendeva promuovere la beffa: si tratta, insomma, di documenti antecedenti all’effettiva incisione, che non può quindi essere più antica della fine del XIX secolo. Per il ruolo di falsario, infine, tutti gli indizi puntano verso l’autore della “scoperta”, l’immigrato svedese Olaf Ohman.

Oltre alle presunte tracce archeologiche, la presenza “vichinga” in America è stata sostenuta con dati pseudo-etnografici, come la convinzione che la cultura degli indiani mandan del Nord Dakota si fosse evoluta solo grazie ai contatti con una cultura superiore, quella degli scandinavi (bianchi), o ancora la teoria che, in seguito a questi contatti, la lingua norrena avrebbe influito su quella degli indiani algonchini.

Nonostante queste presunte prove siano state ripetutamente screditate, negli Stati Uniti vi è tuttora un consistente numero di persone che le ritiene autentiche. Per comprendere questo tenace attaccamento verso il mito vichingo bisogna tener conto del background sociale e culturale degli Stati Uniti, e specialmente del Midwest, dove il mito vichingo è sorto e ha attecchito in una nutrita comunità scandinavo-americana fiera delle proprie origini. In Minnesota, in particolare, gli immigrati si erano insediati nella seconda metà del XIX secolo e avevano dovuto lottare duramente per essere accettati dal resto della comunità locale. Per loro, la “scoperta” della pietra di Kensington fu il segno che i loro antenati erano giunti lì prima degli inglesi in quella che era la loro terra promessa: attraverso la pietra, gli immigrati scandinavi rivendicavano dunque il loro posto nella storia americana, di cui desideravano far parte. Nella versione plasmata da Holand, la pietra di Kensington diventa così un monumento al sacrificio dei loro antenati ma anche il memoriale del primo eccidio della storia americana e una primordiale rivendicazione di quella terra, che ne legittima la successiva conquista bianca.

In seguito alla definitiva integrazione della comunità scandinavo-americana, la pietra divenne per loro un mezzo di autocelebrazione e di espressione di orgoglio etnico, mentre il resto della comunità del Minnesota vide nei “vichinghi” di Kensington i primi martiri bianchi del West, e nel loro l’incontro con gli Skrælingar una prefigurazione dello scontro tra i pionieri e gli indiani Dakota nel XIX secolo. Per molti americani, infine, la storia di Holand consentiva di riappacificarsi finalmente con il proprio passato, nel quale i loro antenati figuravano spesso come carnefici degli indigeni; ora, invece, erano i bianchi a fare la parte delle vittime innocenti.

Alimentata da questi fattori ideologici e dal fascino del mito vichingo, nel Minnesota la storia dei “norvegesi di Kensington” è stata dunque trasformata in una sorta di religione civica, finalizzata alla legittimazione della conquista bianca – e cristiana – della frontiera. Al contempo, l'”eredità vichinga” è diventata un vero e proprio business regionale che ha coinvolto istituzioni locali, associazioni civiche e persino chiese sia cattoliche – come quella di Kensington, dedicata alla «Nostra Signora della Pietra runica» (Our Lady of the Runestone) – che protestanti.

In ultima analisi, grazie alla pietra runica di Kensington e alla storia inventata da Holand, lo Stato del Minnesota ha di fatto creato una propria “identità vichinga”, espressa per esempio dal nome della squadra di football dei Minnesota Vikings, con sede a Minneapolis. Cuore di questa identità è il Runestone Museum di Alexandria, capoluogo della contea di Douglas, dove è esposta la pietra di Kensington e dove troneggia una grande statua di un vichingo, dagli abitanti chiamato affettuosamente Big Ole, sul cui scudo è impressa la frase Alexandria, birthplace of America. L’America, insomma, è nata quando arrivarono gli europei, e i primi ad arrivare furono i “vichinghi” nel Minnesota.

Francesco D’Angelo

Per approfondire:

James Peter, Thorpe Nick, I vichinghi in America, in Idd., I libro degli antichi misteri, Mondolibri, Milano 2000, pp. 411-428.

Krueger David M., Myths of the Rune Stone. Viking Martyrs and the Birthplace of America, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2015.

Pagani Roberto L. (a cura di), Saghe della Vinlandia. I vichinghi alla scoperta dell’America, Diana edizioni, [S.l.] 2018.

Wahlgren Erik, I vichinghi e l’America, Bompiani, Milano 1991.

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Written by : Redazione

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