Perché leggere questo canto? Questa è la prima domanda che ci balza alla mente quando la pagina della Divina Commedia si ferma al XXVI del Paradiso. Lo si deve leggere perché, se nella sequenza narrativa precedente Dante non solo aveva nominato la sua opera “poema sacro” (vv. 1-2), ma si era persino spinto a dichiarare che proprio grazie a quella fatica letteraria sarebbe stato incoronato poeta nel suo “battesmo”. Nel canto in questione Durante degli Alighieri giustifica la scelta del volgare per trattare di cose a cui “ha posto mano e cielo e terra”. E lo fa interloquendo con il primo uomo, Adamo, il primo a utilizzare il linguaggio per comunicare. Questa giustificazione, di per sé capitale nell’economia del testo, acquista un ulteriore significato se la si rapporta al trattato linguistico in latino (De Vulgari Eloquentia, I, VI), dove il Poeta raffigurava la mutevolezza delle lingue come frutto di una punizione divina.

Ma partiamo dall’inizio: narrativamente il canto è il continuo di quello precedente, e troviamo un Dante cieco che viene esaminato da S. Giovanni sul concetto di carità. La cecità provoca in lui un sentimento di paura e sgomento, successivamente mitigato dalle parole confortanti di S. Giovanni, il quale gli dichiara la temporaneità della sua condizione. Infatti, saranno gli occhi di Beatrice e donare di nuovo la vista al pellegrino, la stessa virtù posseduta da Ananìa (cristiano di Damasco, secondo gli Atti, IX, 10 sgg.) quando ridiede la vista a S. Paolo, e lo battezzò. Alla fine del colloquio, avente come oggetto l’origine della carità, Dante viene circondato dal coro angelico dei beati e, dopo aver ripreso la vista, si accorge della comparsa di un “quarto lume”. Questa sfera di luce altri non è che “l’anima prima” ovvero il primo uomo creato da Dio, Adamo. Egli dichiara di conoscere cosa Dante volesse chiedergli, e delle quattro domande che il viator pone ad Adamo, ci soffermiamo sulla quarta, quella che ha per oggetto la lingua.

L’argomento sull’origine del linguaggio non è meramente astratto, infatti, come abbiamo già detto, riveste un’importanza cruciale sia rapportata al significato all’interno della Commedia, sia se la si rapporta alle tesi dichiarate dal poeta nel De vulgari. Se nel trattato latino Dante aveva manifestato la concezione di una lingua immutabile e perfetta, nella sintassi e nella grammatica (la lingua ebraica), poiché creata direttamente dalla mente di Dio, nella Divina Commedia rettifica le sue primitiva posizioni (cioè origine divina e inalterabilità nel tempo e nello spazio) estendendo anche alla lingua ebraica il concetto della mutevolezza delle lingue poiché creati direttamente dalla mente dell’uomo

Per concludere, la nuova prospettiva a cui giunge Dante sembra ribaltare quella già proposta, in cui la mutabilità del linguaggio non viene più considerata come conseguenza di un peccato, ma caratteristica distintiva di ogni cosa che ci circonda: 

“Nel monte che si leva più da l’onda,
fu’ io, con vita pura e disonesta,
da la prim’ ora a quella che seconda,

come ’l sol muta quadra, l’ora sesta.”

 

Matteo Tafuto

 

Per approfondire:

CORRADO M., Dante novissimus Adam. Lettura del canto XXVI del Paradiso in Lectura Dantis Teatina, Aggiornamenti sulla Commedia voll. II, a cura di V. Giannantonio-A. Sorella, Longo Editore Ravenna, pp. 27-59

BARLOZZINI G., Il canto XXVI del ‘Paradiso’, Torino, SEI, 1961.

SASSO G., La lingua, la Bibbia, la storia. Su ‘De vulgari eloquentia’ I, Roma, Viella, 2015.

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Written by : Redazione

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