La Divina Commedia è un poema allegorico-didascalico di Dante Alighieri, composto tra il 1304 e il 1321. Presenta una struttura di tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ciascuna di 33 canti con l’aggiunta di un canto di premessa per l’Inferno, per cui in totale sono 100 canti. È il racconto fatto in prima persona, da Dante, relativo ad un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, ma lo si legge anche come il viaggio che ogni cristiano dovrebbe perseguire al fine di raggiungere la propria salvezza.
Il canto che analizzeremo è il VI del Purgatorio (il secondo regno dantesco, in cui avviene la purificazione dell’animo umano, e diviene così degno di elevarsi al cielo in prossimità di Dio) che, come i corrispettivi delle altre due cantiche, presenta una tematica politica. Dante si trova al secondo balzo dell’Antipurgatorio, che si apre con una lunga rassegna di anime vittime di morte violenta.
La figura centrale è Sordello da Goito (poeta, trovatore e giullare mantovano, morto per assassinio) che, in seguito all’abbraccio con il suo concittadino Virgilio, stimola in Dante una celebre e dolorosa invettiva contro la situazione degenerata dell’Italia e un’apostrofe contro Firenze.
Di questo disordine, Dante dichiara responsabile l’imperatore Alberto D’Austria, che disinteressandosi dell’Italia e venuti meno quelli che sono gli inderogabili doveri di ogni imperatore, assicurare la giustizia e la pace a tutta l’umanità, l’ha portata alla deriva:
“O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!”
Si rivolge poi ad altri quattro interlocutori, in progressione:
L’Italia, definita come una “donna di bordello”, per denunciarne la bassezza morale e spirituale, tutta volta a farsi la guerra:
“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.”
La gente che, ha mostrato il più completo disinteresse per il buon governo e per la pace comune:
“Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.”
Dio stesso, cui si chiede, retoricamente, se questa situazione di degrado e corruzione non sia forse un passaggio doloroso e necessario per un futuro diverso:
“E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?”
Firenze, su cui si riversano le accuse più pesanti e sarcastiche al tempo stesso:
“Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.”
Insomma, quello di Dante è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell’Italia del Trecento, che trovava la sua radice nella cupidigia degli uomini illustri del tempo, in cui l’unica cosa che traspare è l’idea comune di una nazione abbandonata e misera, paragonata ad una nave senza timoniere in gran tempesta. Ciò che ad oggi ci domandiamo è se questa denuncia può essere attualizzata, se a vigere è ancora una volta, esclusivamente, la brama di potere.
Lorena La Tela
Per approfondire:
CHIAVACCI LEONARDI A.M. commento di, La Divina Commedia-Purgatorio di Dante Alighieri, , Oscar, Mondadori Libri, Milano, 2016
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