Oggi siamo in compagnia del Dottor Paolo Pizzimento che abbiamo avuto il piacere di incontrare durante la mattinata dedicata a Tolkien e Alighieri del Festival del Medioevo – Il tempo di Dante, organizzato in collaborazione con l’AIST – Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Dottorando di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali (COSPECS) dell’Università degli Studi di Messina, collaboratore di cattedra, membro del comitato di redazione della rivista Mantichora. Periodico del Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative nonché socio AIST, i suoi ambiti di studio sono la letteratura e il teatro medievali, con un particolare focus su Dante. Inizieremo questa intervista che ha accettato di concederci rifacendoci agli autori affrontati nel suo intervento Il mondo di Tolkien e Dante: appunti per una cosmologia comparata:
Cominciamo dalla sua tesi su La Metafisica dell’Amore nella «Vita nuova» di Dante: definirebbe l’Amore di Dante medievale o innovativo? Anche il mondo tolkieniano vede il compiersi di più di un’eucatastrofe (ovvero “l’improvvisa svolta felice in una storia” – lettera n.100) grazie a varie forme d’amore: di nuovo, lo ritiene un Amore medievale o una differente idealizzazione?
Anzitutto grazie per questa intervista e per l’interesse che mostrate per il mio lavoro. Quando mi capita di parlare del Poeta, inizio sempre con una precisazione: Dante non è moderno. Credo sia bene rimarcarlo, specie in un anniversario come quello appena trascorso, roboante di elogi istituzionali e celebrazioni più dovute che sentite, che tanto spesso hanno celebrato il “Sommo Poeta”, “il Padre della lingua italiana”, insomma il “monumento nazionale” e non l’uomo in carne ed ossa che ha patito l’esilio e ha visto i suoi sogni di armonia terrena infrangersi uno dopo l’altro. A me pare che ci sia, invece, una necessità improrogabile di leggere Dante assumendo tutta la distanza che ci oggi separa da lui; una necessità che è addirittura un’urgenza etica in una società dell’effimero e del consumo quale è la nostra.
Dante è un uomo del suo tempo, anzi per molti versi è più legato al passato di molti suoi contemporanei: la sua concezione del mondo è essenzialmente simbolica e religiosa, egli agogna a un modello politico – l’Impero – che è ormai del tutto irrecuperabile, intende la poesia in una maniera diametralmente opposta rispetto a un quasi contemporaneo come Petrarca – lui sì davvero “moderno” –.
L’amore che Dante celebra, perciò, non può essere moderno e se è innovativo lo è rispetto alla tradizione della fin’amor della poesia trobadorica, nella quale la poesia dantesca affonda radici profonde. Ma attenzione: egli non “distrugge” il proprio modello, lo restaura profondamente dall’interno e proprio perciò lo supera. Ne rende, inoltre, espliciti i contatti con la teologia e la filosofia e fa di Beatrice – che è sempre e comunque amata come donna – un vettore di Grazia e Salvezza. Si può dire che questa azione non guardi in avanti ma indietro, a tutta la tradizione medievale che Dante, in qualche modo, ricapitola in sé.
Per quanto riguarda Tolkien, il Medioevo cui guarda non è certamente quello romanzo dei trovatori (e di Dante) ma quello nordico dell’Edda, del Beowulf e del Kalevala: un mondo ancora più remoto nel tempo, in cui l’amore è celebrato, sì, ma in maniera assai peculiare: se ne trova senz’altro un’eco nella tragica storia di Túrin e Niënor. Certo, in Tolkien emergono anche motivi riconducibili alla fin’amor trobadorica – che, del resto, è presente nella letteratura arturiana, compreso il Sir Gawain and the Green Knight amato da Tolkien –, ma dovremmo senz’altro considerare anche l’influenza della cultura romantica (oggetto di particolare attenzione da parte della critica tolkieniana degli ultimi anni) e, soprattutto, la personale esperienza di vita del Professore. A me pare che la sua maggior ispirazione sull’amore sia proprio la sua Edith, che ispirò tanto la storia grandiosa di Beren e Lúthien – e, da qui, quella di Aragorn e Arwen – quanto quella “semplice” di Sam Gamgee e Rosie Cotton. Esiste un amore più bello e “antimoderno” di quello tra Tolkien e sua moglie?
Domanda da tolkieniana: visto che tra i suoi campi di studio c’è il teatro medievale, si è mai interrogato su possibili legami col “Teatro delle Fate” (“Faërian Drama”) di cui parla Tolkien nel suo saggio Sulle fiabe (On Fairy-stories)?
Si tratta di una questione complessa, poiché in On Fairy-stories Tolkien non specifica mai cosa sia il faërian drama né ne fornisce esempi. Si limita a dire che il teatro umano è in sé naturalmente ostile alla Fantasia mentre il teatro delle Fate può produrre Fantasia con un realismo e un’immediatezza che stanno oltre il raggio di ogni meccanismo umano. I suoi effetti sono quelli di ogni vera “sub-creazione”: trasportare lo spettatore direttamente nel Mondo Secondario e risvegliare in lui, tramite l’Arte, la Fantasia, il Recupero, la Consolazione, quindi aprirlo all’Eucatastrofe – che, come nota Tolkien, è il contrario della Tragedia, conclusione logica del Teatro drammatico. Sono affermazioni di tale profondità che è vero peccato che non siano state ulteriormente sviluppate da Tolkien.
Personalmente credo sia impossibile ricostruire le ascendenze dirette del faërian drama. Ho però l’impressione che esse vadano ricercate, più che nel teatro medievale di area romanza, nella letteratura arturiana – penso, ad esempio, alla scena del castello del Graal che appare davanti a Perceval/Parzival per poi scomparire quando il cavaliere fallisce nella prova, episodio a sua volta proveniente dal Mabinogion gallese –, in poemi medio-inglesi come Pearl e Sir Orfeo, nella poesia e nel teatro inglesi del ’500 – come The Faerie Queene di Spenser o a certe scene da A Midsummer’s Night Dream, opere con le quali Tolkien aveva comunque un rapporto tutt’altro che pacifico – o in romanzi moderni come A Christmas Carol di Dickens.
È vero, però, che se il fine del faërian drama è portare “fisicamente” lo spettatore nel Mondo Secondario e aprire la sua coscienza all’Eucatastrofe, allora c’è una forte consonanza col teatro medievale, che perseguiva proprio questi fini.
Parliamo spesso di medievalismo cinematografico, ma molto meno del medievalismo teatrale: nel teatro odierno c’è una particolare ripresa di alcuni elementi medievali?
In realtà è difficile parlare di “teatro medievale”, perché le forme di teatralità diffuse nel Medioevo erano molto diverse sia da quelle classiche sia da quelle moderne e contemporanee. Ovviamente non esistevano teatri – intesi come luoghi preposti alla rappresentazione – e perciò lo “spazio teatrale” si sovrapponeva agli spazi della vita quotidiana (la corte, le piazze delle città, le chiese…): come dire che il Mondo Secondario si sovrapponeva al Mondo Primario.
Oggi è, naturalmente, tutto diverso. I temi del teatro medievale, così incentrato sulla religione, sono forse inutilizzabili; e anche forme di recupero come Mistero buffo di Dario Fo restano mirabili e geniali prove di medievalismo e non di ripresa del “vero” teatro medievale. Esistono però validi tentativi di ricostruzione filologica come il Crucifixus, ad oggi il più importante festival italiano dedicato a teatro, arti, musica e tradizioni del sacro. E non bisogna dimenticare realtà teatrali odierne che hanno incorporato alcuni elementi del teatro medievale, come ad esempio la compagnia ravennate delle Albe, che ha da poco completato un trittico di rappresentazioni della Commedia recuperando la dimensione corale e rituale del teatro medievale.
Soffermiamoci sugli studi delle arti performative medievali: quanto risentono dell’ombra delle più studiate pittura, scultura e architettura? Un buono studio di queste richiede anche una loro riproduzione dato il loro particolare carattere?
Certamente uno studio sulla performatività nel Medioevo richiede una conoscenza delle arti dell’epoca in generale. Nel Medioevo un’immagine dipinta o scolpita non aveva un fine esclusivamente estetico ma doveva esercitare una vera e propria “agency” performativa, muovendo l’osservatore a partecipare attivamente alla scena rappresentata. Quindi i risultati della ricerca in campi come la pittura, la scultura e l’architettura possono offrire elementi determinanti per uno studio performativo, che si distingue proprio per il raggio ampio di analisi.
Rispondere alla domanda sulla riproduzione delle arti performative medievali è difficile, come ho detto sopra, perché chiama in causa problemi di ordine storico, filologico, interpretativo etc. Certamente, però, una seria riproposizione di testi drammatici medievali consentirebbe anzitutto di dirimere il diffuso errore di considerare il teatro del Medioevo, che è un’arte fondamentalmente distinta dalla Letteratura, come un settore di quest’ultima; e poi permetterebbe a molte splendide opere di uscire dai libri eruditi per tornare materia viva, vibrante, capace di interrogare l’uomo contemporaneo come il medievale.
Le arti performative sono molto presenti in Tolkien: la musica, il canto e la danza appaiono molto spesso quando parla dei suoi Elfi (oltre al già citato Teatro delle Fate) e non solo. Il medievalismo del Professore è ampio e variegato, e spesso un eccellente ponte per avvicinare i giovani (e in generale i neofiti) al Medioevo: come si potrebbe utilizzare il ricorso alle arti performative nella divulgazione di entrambe?
Assolutamente. Tolkien solo non inserisce nella propria opera continui riferimenti alla musica – che è proprio l’origine del suo Mondo secondario –, al canto e alla danza, ma come ha evidenziato Verlyn Flieger nello splendido volume Interrupted Music: The Making Of Tolkien’s Mythology, ha proprio creato una “tradizione orale” nella storia della Terra di mezzo. Il Professore, del resto, si mostra particolarmente attento alla dimensione orale e performativa, così come dimostrano numerose sue riflessioni sul mito e sulla fiaba contenute in The Monsters and the Critics and Other Essays.
Per come la vedo io, il filtro epistemologico dei Performance Studies si rivela utile perché consente di guardare a un testo – come Il Signore degli Anelli o Il Silmarillion – come a una realtà non statica ma in movimento, che agisce, che dialoga con le sue fonti d’ispirazione, che plasma i miti antichi in miti moderni con una “maestria elfica” ma che al contempo è disponibile a lasciarsi interpretare dalle altre arti. D’altro canto, Tolkien stesso scrisse che il suo Legendarium avrebbe dovuto costituire un insieme maestoso ma capace di lasciare spazio per altre menti e mani che brandissero la pittura, la musica e il teatro (Lettere, n. 131). Da questo punto di vista, mi pare che specialmente il cinema, l’illustrazione e la musica abbiano offerto ottimi servigi all’opera di Tolkien.
Per avvicinare giovani e neofiti al Medioevo, poi, mi pare che Tolkien sia un ottimo compagno di viaggio. Mi viene in mente un passo del suo saggio su Beowulf in cui scrive che il verso «hæeleð under heofenum» (v. 52) può oggi essere inteso asetticamente come «i grandi uomini sulla terra» ma che per l’autore e gli ascoltatori del poema la terra era eormengrund, una Terra di mezzo circondata dall’oceano senza rive: una concezione diametralmente opposta alle nostre conoscenze astronomiche. Ecco, mi sembra che precisazioni come questa siano fondamentali per entrare nella visione del mondo dell’uomo medievale e, quindi, capire meglio anche la sua storia.
In uno dei suoi articoli lei parla dell’oralità e performance, ecco, il mondo della musica si è avvicinato al Medioevo in vari modi, dal ricreare strumenti storici e melodie sepolte al tempo, al favoleggiare un’epoca leggendaria sulle note delle chitarre elettriche. Ci sono aspetti del Medioevo che sopravvivono particolarmente in questo ambito più che in altri? O ancora, ci sono caratteristiche o elementi che non siamo abituati a percepire come medievali, ma che hanno le loro origini in quel lungo millennio?
Certamente siamo abituati a considerare “medievali” molte cose che medievali non sono: da Greensleeves alla caccia alle streghe, dalle lucenti armature complete a piastre all’idea della terra piatta. In molti casi si tratta di proiezioni della nostra mentalità moderna sul passato, errori prospettici di notevole gravità.
Sulla musica, dirò una cosa folle: a me sembra che il grande rock riecheggi la poesia trobadorica. Dopotutto i trovatori erano dei veri e propri cantautori dell’epoca: quelle che noi oggi consideriamo semplici poesie erano delle canzoni vere e proprie, in cui l’elemento musicale era tutt’altro che secondario. I trovatori cantavano di guerra, di politica, d’amore esattamente come i rocker degli anni ’60 e ’70. Inoltre la loro arte, come il rock, veicolava un’ideologia una visione del mondo condivise e per molti versi rivoluzionarie. Non è chiaramente un ritorno dell’uguale ma è certamente la riproposizione di un sentire che, evidentemente, torna ciclicamente.
Sicuramente molta produzione discografica contemporanea ha tratto ispirazione, più che dalla musica medievale, dal Medioevo come “epoca affascinante”. Penso al Progressive della “scuola di Canterbury”, a molto Heavy Metal o al Viking e al Folk-Viking di gruppi come i Bathory, i Månegarm e i Moonsorrow. Quest’ambito in particolare è interessante non solo per le tematiche e il recupero di testi antichi ma anche per l’uso di strumenti considerati tradizionali insieme a quelli moderni. E tante volte le tematiche medievali si coniugano con quelle tolkieniane, come nei Blind Guardian dello splendido Nightfall in Middle-earth.
Certo, se cerchiamo in tutti questi esempi un’esattezza filologica probabilmente resteremmo delusi, ma forse questo aspetto non è importante. Conta di più, a mio avviso, il desiderio che emerge di ricollegarsi più o meno direttamente a quel passato eroico e grandioso, cruento e meraviglioso. E del resto più di un ascoltatore, dopo aver ascoltato Hammerheart, è corso in libreria a cercare testi sulla mitologia nordica.
Continuiamo a parlare dell’oralità del testo: molta letteratura medievale in origine era trasmessa oralmente, testi che oggi vengono nuovamente musicati o servono da ispirazione per canzoni di ogni genere. Si è mai interrogato sulla ciclicità di questo processo?
Sicuramente oggi assistiamo a un fenomeno generale di “oralità di ritorno”, specie nella poesia performativa ultracontemporanea. Ovviamente è un fenomeno diverso rispetto a quanto avveniva nel Medioevo ma è comunque interessante perché segnala il riproporsi di un’istanza che allora era la norma. Oggi trovo molto interessanti, ad esempio, percorsi poetici come quello di Francesco Benozzo, poeta e arpista che, pur senza mai scimmiottare gli antichi bardi, esprime nondimeno una concezione quasi ancestrale della sua arte e crea atmosfere antiche ed evocative.
Capita spesso, del resto, che testi medievali vengano oggi nuovamente musicati: è un’operazione interessante, talvolta condotta con rigore, talaltra con più libertà. Credo che essi vadano considerati come testimonianze di un Medioevo cui continuiamo a guardare con meraviglia nonostante la nostra divampante contemporaneità.
È un processo ciclico? Probabilmente sì: ma come ho detto prima non dobbiamo aspettarci un eterno ritorno dell’uguale ma varie forme di recupero, alcune delle quali più riuscite di altre.
Da dantista, quale rapporto hanno i testi del Sommo Poeta (in particolare la Commedia) con la musica e il teatro?
Dopo un “oblio” di vari secoli, dall’epoca romantica Dante è stato nuovamente oggetto di attenzione e ha influenzato tantissimi artisti: penso a Silvio Pellico con la sua tragedia Francesca da Rimini o a Franz Liszt con la sua Dante-Symphonie, senza dimenticare Gustave Doré e William Blake con le loro splendide e famosissime opere. Nel teatro italiano contemporaneo vanno sicuramente segnalate la trilogia dantesca messa in scena da Federico Tiezzi tra il 1989 e il 1991, le cui tre cantiche erano state riscritte da Edoardo Sanguineti (Inferno), Mario Luzi (Purgatorio) e Giovanni Giudici (Paradiso), e il già citato trittico dantesco delle Albe: tentativo interessantissimo perché non si è proposto di rivestire la Commedia di immagini sceniche, di “trasformare” il capolavoro dantesco in teatro, bensì di estrarne e comunicarne l’intima natura radicalmente teatrale.
Con l’ultima domanda guardiamo al futuro: quale direzione prenderanno i suoi prossimi studi?
I progetti sono tanti, forse troppi, ma in fondo mi piace tenere aperte tante cose e lasciare che, in qualche modo, interagiscano tra loro. Certamente proseguirò con lo studio più teorico della performatività della letteratura e dei nessi tra oralità, performance e letteratura nel Medioevo. Vorrei completare uno studio esaustivo sulla teatralità nella Divina Commedia. Inoltre sto anche raccogliendo del materiale su Tolkien, di cui mi interessano tantissimo la riflessione teorica su Creazione e “sub-creazione” e la lunghissima evoluzione del Legendarium. Ci sono anche dei progetti di natura più creativa ma – per citare un celebre film degli anni ’80 – “questa è un’altra storia”.
Ringraziamo il dottor Pizzimento per il tempo che ci ha dedicato e per averci aiutato gettare luce su aspetti del Medioevo e del medievalismo forse meno noti al grande pubblico, ma di indubbio interesse e valore.
Valérie Morisi