Cari lettori di Medievaleggiando è per noi un piacere essere oggi in compagnia del Professor Massimo Centini. Docente di antropologia culturale presso la fondazione Università Popolare di Torino, insegna anche Storia della criminologia presso il MUA – Movimento universitario altoatesino – di Bolzano. Autore di numerosi saggi che analizzano tematiche legate alla religione, ha dedicato approfonditi studi sulle cosiddette “culture primitive”, svolgendo ricerche sulle loro pratiche rituali. Ad oggi collabora con università, musei italiani e stranieri. Tra i suoi testi ricordiamo: Tesori scomparsi. Dall’Arca dell’Alleanza all’oro del Terzo Reich (De Vecchi edizioni, 2005), Mondi perduti. Viaggio nei luoghi della fantasia – tra fantascienza, mito, immaginazione e storia (Xenia edizioni, 2019), I templari in Italia. I luoghi, la storia e i miti (Yume, 2021) e Storia dell’inquisizione. I metodi e i processi del tribunale di Dio (Diarkos, 2021) al quale abbiamo anche dedicato una recensione.
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Buongiorno Professor Centini, innanzitutto vorremmo ringraziarLa per averci concesso quest’intervista. Prima di approfondire i Suoi studi, pensiamo sia il caso di fare un po’ di chiarezza. Per gli “addetti ai lavori” è facile riconoscere le differenze tra le diverse branche del sapere, mentre per il pubblico a volte risulta più difficile. Potrebbe spiegarci la differenza tra l’approccio antropologico e l’approccio storico ad un tema?
Direi che sostanzialmente la differenza è che nell’approccio antropologico si rivolge una maggiore attenzione a quegli aspetti che forse per la storia possono risultare “secondari”.
Diciamo che un approccio antropologico nella storiografia moderna c’è stato in primis con la microstoria, con l’attenzione dell’Ecolè Français in questo senso, e poi sicuramente anche con la nascita di un approccio scientifico diverso che è la storia culturale. Che è quel tipo di analisi che guarda sì al fatto storico ma anche alle implicazioni culturali della Storia stessa, quindi non soltanto la storia dei grandi personaggi, dei grandi eventi, dei grandi momenti ma anche che cosa è accaduto all’interno dei microeventi e intorno alle grandi personalità.
L’approccio antropologico non è mai stato guardato con grande ottimismo dagli storici, medievisti e non; direi che una figura di riferimento, secondo me, è stato Carlo Ginzburg che ha orientato la sonda tipicamente storica mettendole un carburatore antropologico.
Per certi aspetti possiamo dire che questo nuovo approccio è stato inaugurato negli anni ’60 con i Benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento (Adelphi Einaudi 2020 1966) e poi ha trovato la sua apoteosi in Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Adelphi Einaudi 2017 1989), un libro dedicato specificatamente alla stregoneria nelle sue implicazioni antropologiche, di microstoria, di storia culturale, fino a formulare ipotesi che possono aver fatto drizzare un pochino i capelli agli storici ufficiali e vale a dire ipotizzare una connessione tra stregoneria e sciamanismo, una cosa che aveva provato a fare Margaret Murray ma era stata crocifissa, per l’autorevolezza di Ginzburg questa cosa non è stata fatta.
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Pensa che un approccio interdisciplinare possa aiutare la ricerca a raggiungere risultati più completi e significativi?
Credo che oggi come oggi in diversi ambiti delle scienze sociali, ma anche delle scienze cosiddette dure, l’approccio multidisciplinare sia innegabilmente utile, fondamentale.
Lo storico “forse può fare a meno” di un contributo multidisciplinare, l’antropologia invece proprio per le sue peculiarità – soprattutto quando è impegnata nelle indagini sul campo – avverte tantissimo il bisogno della multidisciplinarietà, dei contributi che arrivano da ambiti diversi, anche perché gli studi sono tantissimi molteplici, le “scoperte” – se possiamo parlare di scoperte – sono tantissime numerose. La capillarizzazione delle scienze è sempre più ampia quindi quella che una volta era antropologia, ma potrebbe essere qualunque altra materia, diventa antropologia sociale, economica, medica, dell’arte etc., proprio per questo penso che oggi non si possa fare a meno della multidisciplinarietà. In questo ambito cito sempre lo studio di Ernesto de Martino sul tarantismo (Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959), che ancora oggi è una pietra miliare, dove lui De Martino sì aveva fatto uno studio come etnologo legato a questa fenomenologia, ma si era fatto accompagnare anche da uno psichiatra e da un musicologo per avere una visione da punti di vista diversi e di conseguenza tutti focalizzati sul tema. Viva la multidisciplinarietà!
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Come abbiamo detto in apertura, Lei ha alle spalle una carriera prolifica, sia dal punto di vista accademico didattica che divulgativo. Partiamo proprio da questo: cosa L’ha spinta a scegliere un approccio di ampio respiro per la pubblicazione dei Suoi studi?
Per moltissimo tempo, e in alcuni ambiti ancora adesso, la divulgazione in Italia è stata sminuita dall’accademia perché in genere si pensa che la divulgazione sia fatta da persone incompetenti per persone ancora più incompetenti.
Se noi ci rivolgiamo all’ambito anglosassone, per esempio, scopriamo che la divulgazione viene fatta da accademici con dei linguaggi accessibili e che arrivano all’essenza, aperta a chi non ha un background tale da leggere un libro con cinquanta pagine di note ogni dieci. Io credo che la divulgazione sia fondamentale, come nella didattica bisogna riuscire a lasciare qualcosa, non si può pensare che uno studente si ricordi un’ora e cinquanta di lezione dall’inizio alla fine per molti motivi anche fisiologici, se però tu in quel lasso di tempo dai 2 o 3 input da ricordare che siano tra loro collegati, ecco che hai fatto un buon servizio allo studente. Nella divulgazione è la stessa identica cosa, solo che alla fine devi togliere quello che c’è può essere fuorviante per i non addetti ai lavori fra un punto e l’altro e mettere solo le parti essenziali, eventualmente rimandando ad altri approfondimenti. Una buona divulgazione deve essere fatta, a mio modestissimo parere, proponendo le teorie in voga su un determinato tema, senza dire che una è giusta e l’altra è sbagliata, ovviamente se ci sono dei paradossi si avverte, lo si mette in evidenza. Ecco io credo sia sostanzialmente questo il punto del discorso anche se oggi è più difficile di una volta fare divulgazione, perché la rete ha proposto spesso un tipo di divulgazione che a volte è un cassonetto, non è divulgazione vera. Internet, e i social, hanno indotto le persone a credere che basta basti effettuare una ricerca online, per esempio “Medioevo”, ed il primo risultato che esce, se affine al tuo pensiero, conferma la tua idea e trasforma, con tutto quello che ne consegue, il Medioevo in ciò che credi che sia. Questo, ovviamente, ha delle ripercussioni sull’oggetto della ricerca, quindi la divulgazione è fondamentale fatta cum grano salis.
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Dell’epoca medievale ha approfondito diversi aspetti, analizzandone poi l’evoluzione nei secoli successivi, molti dei quali riconducibili ai miti che l’hanno reso celebre come “periodo oscuro”. Citiamo a titolo esemplificativo il suo volume “Le bestie del diavolo. Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore” (Rusconi, 1998). Miti, leggende, tradizioni, quanto incidono secondo Lei dal punto di vista storico e antropologico sull’immaginario dell’uomo?
È uscito con Rusconi parecchi anni fa. A questo si deve affiancare il più recente Animali criminali (Yume), di taglio diverso, ma che tocca marginalmente alcuni punti del primo libro. Premetto che i miei interessi per quello che è l’ambito medievale sono sostanzialmente tre: la stregoneria, le problematiche legate alla religiosità – reliquie, culto delle reliquie, pellegrinaggi etc.- e una terza legata alle malattie, alle patologie del Medioevo. Detto questo, il libro da voi citato è un libro che cercava di analizzare il ruolo dell’animale nella stregoneria, che certo ha una sua parte medievale, ma poi ha anche una sua continuazione fino alle soglie dell’Illuminismo. L’animale è una figura trasversale nella cultura occidentale così come nelle altre perché dal punto di vista antropocentrico ha un carattere standard, fisso: il gatto è sempre astuto, concentrato sul fare i propri interessi senza curarsi dell’uomo, la volpe è furba, il cane è fedele, il maiale è sporco e avanti di questo passo. L’uomo ha standardizzato gli animali con delle peculiarità e le ha lasciate immutate e questo ha normalizzato il nostro rapporto con gli animali; nessuno di noi penserebbe mai, salvo qualche caso, di tenersi un coccodrillo invece di un bastardino in casa o un facocero. Il pipistrello, per esempio, è figlio di luoghi comuni e di conseguenza necessariamente un animale delle streghe, un animale malvagio, che è presente nei filtri e partecipa a suo modo alle attività della strega. Il libro si occupava proprio di questo aspetto, degli animali che nello specifico sono stati identificati come le bestie del diavolo, quegli animali che sono stati inseriti nel meccanismo demonizzante, prevalentemente ma non necessariamente, legato alla stregoneria. In questa opera ho raccontato il loro simbolismo e la loro fortuna-sfortuna nella storia.
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Il Suo ultimo studio Storia dell’inquisizione. I metodi e i processi del tribunale di Dio, da noi anche recensito, è dedicato ad un argomento che potremmo definire evergreen. Come mai la scelta di trattare un tema così complesso e abusato come l’Inquisizione?
Nella mia ormai lunga carriera ho studiato parecchi processi di stregoneria e non avrei mai pensato di fare un libro sull’Inquisizione. Mi è stato chiesto dalla casa editrice e inizialmente sono stato un po’ titubante per via dell’argomento e degli studi già effettuati sul tema: il libro di Andrea del Col, per esempio, consiste in un’estrema sintesi di 600 pagine, se poi guardiamo al dizionario dell’inquisizione della Normale di Pisa di Adriano Prosperi (Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da Adriano Prosperi, Edizioni della Normale di Pisa) non si arriva alla fine solo guardando l’indice. In virtù di questo
mi sono impegnato nel fare una sintesi che desse alle persone un quadro obiettivo dell’Inquisizione in un numero di pagine accessibile, toccando tutti i punti salienti e mettendo in evidenza cose vere, cose possibilmente vere e cose non vere dell’inquisizione.
Ovviamente è un tema spinoso, voi sapete benissimo che ci sono correnti nell’ambito della storiografia, della teologia e della sociologia che enfatizzano l’operato dell’inquisizione, proponendo così una lettura conciliante del fenomeno, mentre dall’altra parte una lettura eccessiva che è figlia della storiografia romantica che demonizza l’inquisizione. Come sempre la verità sta nel mezzo: se c’erano degli inquisitori che stando ai documenti erano sostanzialmente dei criminali, ce n’erano altri che molto probabilmente non lo erano. I numeri sono problematici e per numeri intendo le persone inquisite processate ed eventualmente condannate a morte, quante erano effettivamente? Chi dà un numero fisso sbaglia, non perché sia in mala fede ma perché non lo abbiamo. Di molti processi non abbiamo i materiali, a questo aggiungete che nella prima fase l’inquisizione – quella medievale – era orientata esplicitamente contro l’eresia, nello specifico i catari. Poi andando avanti, con la formazione del Sant’Uffizio, ecco che con meno eretici in circolazione l’inquisizione apre il suo ventaglio su ambiti diversi, che vanno appunto dalla stregoneria alla bestemmia e a mille altre cose. Devo dire in tutta onestà che ho trovato molti processi di streghe celebrati in ambito laico e ho trovato dei processi in cui le persone accusate di stregoneria chiedevano alla Chiesa di essere processate dalla stessa, perché il mondo laico era molto più duro, non dimentichiamo che tra l’altro c’era un certo interesse per la requisizione dei beni. Quando si sente dire “milioni di streghe bruciate” è una frase che vale come il due di picche, nel senso che potrebbe essere ma non lo sappiamo e a me sembra un numero eccessivo. Ci sono state delle condanne a morte che sono paradossali nel senso che la strega e in misura minore l’eretico in questo senso, è diventata un Cavallo di Troia dove dentro uno depositava tutte le problematiche e le patologie sociali, per poi addossare la colpa alla strega. I bambini, le mucche, morivano per mille motivi e non sapevi a chi dare la colpa ed è per queste cose che la strega fungeva da capro espiatorio, una specie se vogliamo di ansiolitico culturale: io brucio la strega e risolvo il problema, la radice dei mali, ma noi oggi sappiamo che non è così.
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Come sa noi non solo ci occupiamo di Medioevo ma anche dei suoi revival che rientrano nella categoria del Medievalismo, quindi tutto quello che ha che fare con il sogno che circonda l’Età di Mezzo. In un suo libro, Mondi perduti. Viaggio nei luoghi della fantasia – tra fantascienza, mito, immaginazione e storia (edito da Xenia) affronta il mondo perduto come luogo della leggenda e della fantasia. Il classico “c’era una volta” rimanda, soprattutto nel nostro immaginario occidentale, al Medioevo. Secondo lei perché?
Premetto che questo libro sul “mondo perduto” nasce da una mia passione che è Conan Doyle, amato da me non soltanto per Sherlock Holmes ma anche per i racconti di “fantascienza” o romanzo scientifico come si suol dire, che ho omaggiato dando al mio libro lo stesso titolo del suo; allo stesso modo amo H.G. Wells. Il mondo perduto è quel posto, una nicchia che si è mantenuta inalterata nel tempo. Il concetto del mondo perduto secondo me è questo.
Il Medioevo è nell’immaginario un mondo perduto soprattutto a livello nazional – popolare, nell’immaginario dell’uomo della strada il Medioevo è quello dei film, di Ivanhoe.
Quando andavo alle scuole medie a noi dicevano che il Medioevo era quel periodo oscuro, il periodo buio della storia mentre ora sappiamo benissimo, senza essere Jacques Le Goff, che il Medioevo non era affatto oscuro anzi, era compatibile con la tecnologia, i mezzi e le conoscenze di allora e ovviamente era condizionato dal peso asfissiante della religione che fosse canonica o eretica. Nei manuali di scuola, poi, era riportato alla fine del feudalesimo il capitolo “il risveglio dell’anno Mille” e, quando si domandava il perché del risveglio, ci raccontavano la bella storia della paura della gente per la fine del mondo, contrabbandando l’Apocalisse di Giovanni. Quindi secondo loro la gente aveva paura della fine del mondo ma dopo l’anno Mille tutti hanno ricominciato a fare un sacco di figli, a coltivare i campi, dimenticando nel frattempo l’invasione degli Ungari, dei Saraceni, le epidemie e avanti di questo passo. Quindi c’è un po’ questo immaginario che fa del Medioevo appunto un “mondo perduto”. Avevo visto un sacco di anni fa un film di cui poi hanno fatto un sequel con Jean Reno, “I visitatori”, dove i due protagonisti si risvegliano nella Francia odierna arrivando dal 1100 e sono caratterizzati come l’immaginario li pensa: con il servitore per terra e l’altro che gli butta gli avanzi della cena, non si lavano, e mille altre cose; poi vedono questo fattorino di colore ed esclamano “i Saraceni!” e gli corrono dietro. Un altro film di taglio completamente diverso, opposto, è “Magnificat” di Pupi Avati: è la storia di un boia ma fatto, secondo il mio modesto parere, con un bel rigore filologico perché cita cose che ho letto da altre parti: bolle papali e alte altre fonti. Altro film interessante di Pupi Avati è “I cavalieri che fecero l’impresa” che dà una lettura della Sindone nel Medioevo veramente originale, anche se un po’ fantasiosa.
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Ha dedicato almeno un paio di libri ai Templari, argomento che affascina tantissimo il grande pubblico. Come mai ha deciso di dedicarsi all’esplorazione di questo tema? Secondo lei perché la storia dei Cavalieri del Tempio affascina tutt’ora?
Sono due libri editi da Yume nei quali ho fatto un bieco impegnativo lavoro di compilazione, aiutando le persone ad avvicinarsi ai templari partendo dal Piemonte (perché abito qui). Ho cercato di schedare tutti i documenti e le pubblicazioni che mi consentissero di prendere un luogo, Torino ad esempio, ed elencare e descrivere, ove possibile, dove fossero presenti i Templari con le fonti bibliografiche e di archivio, quindi non è proprio un raccontare cosa facessero anche perché non lo sappiamo con precisione ma raccontare che cosa c’è rimasto. Dopo il Piemonte poi mi han chiesto di farlo anche per l’Italia – non l’avessi mai fatto – è un lavoro senza fine e ho cercato dalla Valle d’Aosta alla Calabria, isole comprese, di documentare tutto quello che c’era; mentre nella Valle d’Aosta c’era molto meno, ho trovato un mondo in Puglia, nel Lazio, in Sardegna, nelle Marche. Insomma ho fatto questo lavoro di compilazione dove uno può sapere in ogni regione le località dove c’erano i templari e quando ho trovato ho indicato anche solo un appezzamento di terreno, o elementi architettonici ancora presenti (che sono rarissimi); sono venute fuori cose di grande interesse prevalentemente burocratiche: vendite, atti notarili, dissidi da condominio, templari che non pagano le tasse e cose di questo genere fino a cose simpatiche come gente che in Puglia si travestiva da templare per avere delle agevolazioni da parte del governo. I templari piacciono perché intanto sono finiti male, sono vittime della storia, vittime condannate con il concorso della Chiesa. Nell’immaginario comune in realtà è una connivenza fra potere e interesse economico – finanziario laico, mentre la Chiesa tiene la testa sottoterra come gli struzzi. Un ordine che è stato totalmente eliminato, nel 1400 nessuno si ricordava più dei templari. È stato rievocato dalla storiografia dell’Ottocento, Jules Michelet in testa, che hanno fatto dei templari degli eroi, se poi fossero veramente così eroici non lo sapremo mai.
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Le andrebbe di darci qualche anticipazione sui suoi prossimi lavori?
Chi è arrivato alla mia età si accorge degli anni che passano per i libri che ti ripubblicano, magari anche scritti 25/30 anni fa. Dovrebbe essere imminente la pubblicazione di un libro riproposto dalla Giunti: “La storia dei papi” da San Pietro a Papa Francesco – che nella prima edizione non c’era, arrivava a Giovanni Paolo II. Dovrebbe uscire a breve un’altra opera, che fa parte dei miei interessi antropologici e curiosità personali, su cui ho lavorato negli ultimi due anni e tratta del cannibalismo nelle culture. La casa editrice Gremese mi ha chiesto di farlo ed è un libro di divulgazione che cerca di spiegare cos’è il cannibalismo, dalle caverne ai serial killer, in chiave scientifica. Essendo arrivato a una certa età potrei cominciare a pensare seriamente ad andare in pensione. È appena stata ripubblicata da Giunti, ovviamente aggiornata, “La storia dei papi da San Pietro a Papa Francesco”. Ho in paio di progetti con la casa editrice Yume, che oltre essere straordinariamente attiva e dotata di un catalogo di tutto rispetto, è anche gestita da cari amici; comunque, essendo arrivato a una certa età, potrei cominciare a pensare seriamente ad andare in pensione.
Ringraziamo il Professor Centini per il tempo che ci ha dedicato e per averci fornito un punto di vista diverso sulla storia.
Martina Corona, Giulia Panzanelli