È con immenso piacere che oggi siamo in compagnia della Professoressa Francesca Roversi Monaco. Professore associato di Storia medievale dal 2014 all’Alma Mater di Bologna, si occupa di storia della storiografia, cui si affianca l’interesse per il medievalismo e la percezione e l’uso del Medioevo come mito-motore nella società contemporanea. È membro del comitato scientifico di varie collane e riviste, del comitato scientifico dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo (ISIME), dell’Istituto per la storia dell’Università di Bologna (ISTUB) e della Società Italiana degli Storici Medievisti. Tra i suoi contributi più noti ricordiamo “Il Comune di Bologna e Re Enzo: costruzione di un mito debole”, edito da Bononia University Press, “Il gran fatto che dovrà commemorarsi: l’Alma Mater Studiorum e l’Ottavo centenario della sua fondazione. Medioevo, memoria, identità a Bologna dopo l’Unità d’Italia”, nel volume  “Medievalismi italiani” edito da Gangemi Editore, «Damsel in distress». Medioevo, medievalismo e ruoli di genere nella cultura audiovisiva contemporanea, nel «BULLETTINO DELL’ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO», Fra Camelot e Sherwood. Artù e Robin Hood nella cultura audiovisiva contemporanea, nel volume Personaggi storici in scena. Con Tommaso di Carpegna e Umberto Longo organizza dal 2014 le giornate di studio internazionali di “Medioevo fra Noi” e ha rivestito più volte il ruolo di relatrice al Festival del Medioevo di Gubbio.

Iniziamo dunque questa chiacchierata, che abbiamo trascritto mantenendone volutamente il tono colloquiale.

 

  1. Buongiorno Professoressa, come prima cosa La ringrazio per accettato il nostro invito. Oggi con Lei vorremmo affrontare un viaggio all’interno del Medioevo immaginario, analizzando le icone “pop” che caratterizzano il nostro modo di vedere l’Età di Mezzo. Parleremo sicuramente di principesse, cavalieri, eroi e castelli ma, prima di addentrarci nell’analisi e nel confronto di queste figure, credo sia il caso di partire dalle basi, dal Medioevo del “C’era una volta”, dal cosiddetto “Medioevo Fiabesco”.

Certamente, e intanto vi ringrazio per avermi fatto l’onore di intervistarmi. In effetti il Medioevo è il tempo della fiaba, in maniera innegabile, nel senso che tutti noi appena immaginiamo una fiaba, la immaginiamo in un contesto di tipo medievale: quindi con un castello, con un ponte levatoio, con un drago, con una principessa, un cavaliere, una fata, una strega, etc. etc.

Come mai il Medioevo si è trasformato nel tempo della fiaba? Per la cultura occidentale, quindi sotto un certo profilo globale, il Medioevo è divenuto il tempo della fiaba nel corso dell’Ottocento.

Anche grazie, anzi soprattutto grazie, al fatto che è il movimento Romantico che ha creato il canone di Medioevo che tutt’ora perdura nelle nostre società e culture contemporanee, postmoderne, liquide, un canone onnipresente nella cultura popolare e che di fatto costituisce una vera e propria lingua franca.

Il Romanticismo crea questo canone in opposizione ai caratteri principali del classicismo, del neoclassicismo, dell’Illuminismo, ovvero la razionalità, la geometria e la regolarità, prediligendo uno slancio verso il Nord, verso l’irregolarità, verso il gotico, che facciamo fatica a definire: se diciamo gotico, infatti, ci viene subito in mente un universo che connotiamo come medioevale ma che in realtà si è formato dalla fine del Settecento. Questo recupero del Medioevo, questa creazione del Medioevo fatta dal Romanticismo, chiaramente sto semplificando il concetto, ha un risvolto di carattere politico che riguarda innanzitutto la costruzione identitaria delle nazioni e dei popoli dell’Europa ottocentesca, tematica su cui avete anche intervistato il Professor di Carpegna. Una costruzione identitaria che si è basata in primis sulla ricerca del cosiddetto “spirito del popolo”, qualcosa che affondava le sue radici proprio in quel Medioevo di formazione delle origini,  tanto disprezzato dagli intellettuali illuministi tanto amato invece da quelli successivi, in questo “prima” positivo che viene indagato nel corso dell’Ottocento sotto vari aspetti. Uno dei più importanti è quello legato all’operato dei fratelli Grimm che procedettero al recupero e alla raccolta delle fiabe della tradizione popolare e che hanno effettivamente identificato e codificato il Medioevo come tempo della fiaba, oltre che come lingua franca, potremmo dire, internazionale e transnazionale.

Lingua franca, questo Medioevo “sognato”, che noi apprendiamo da bambini proprio attraverso la fiaba e, quindi, il nostro Medioevo è inevitabilmente connesso a un immaginario fiabesco, tema importante e anche molto dibattuto.

I medievisti da questo punto di vista possono avere un conflitto interiore, proprio perché presumibilmente il loro slancio verso lo studio dell’Età di Mezzo affonda le sue radici in questo Medioevo atemporale, metastorico, immaginario e immaginato del medievalismo, che però non è il Medioevo storico.

 

  1. Come ha giustamente spiegato, l’idea di fiaba e di Medioevo sono interconnesse e noi ci entriamo in contatto fin da bambini, non rimanendo mai del tutto esenti dal fascino del primo imprinting. Propp ha chiarito che nelle fiabe esistono una serie di archetipi tra i quali: principesse, eroi, cavalieri e castelli. Vorrei cominciare proprio dalla figura della principessa perché è una delle più dibattute, soprattutto negli ultimi tempi. Abbiamo visto infatti l’evolversi di questo ruolo dalla “donzella in difficoltà”, ovvero la principessa che deve essere salvata dal principe e che parteciperà con lui al lieto fine, alla trasformazione in donna guerriera. A cosa è dovuto questo cambiamento?

Intanto è giusto sottolineare che le fiabe sono fondamentali nella misura in cui raffigurano in modo ‘simbolico’ i cambiamenti fisici, esistenziali, sociali, le difficoltà e le fatiche connesse alle fasi di cambiamento che i bambini si trovano ad affrontare.

Le principesse rappresentano un tema molto importante e significativo da questo punto di vista, perché negli ultimi decenni la loro figura si è evoluta in modo sostanziale riflettendo i mutamenti del contesto sociale. Molto spesso noi non poniamo mente al fatto che i prodotti della cultura cosiddetta “pop”, della cultura di massa, sono in realtà il risultato di tutta una serie di stimoli ed esigenze che la società sente in modo profondo. Nella maggior parte dei casi sminuirne l’importanza e il significato all’interno del contesto è un errore.

Nel caso delle principesse questo è assolutamente evidente perché, se ad esempio ci concentriamo sulle principesse Disney, già intorno agli anni ‘80 notiamo un primo cambiamento. Ritengo giusto partire da qui perché la principessa per eccellenza nell’immaginario collettivo, anche per la mia generazione –  1968 – , è la cosiddetta principessa Disney, anche se molti storcono il naso sull’argomento. Personalmente, ho seguito l’evoluzione delle principesse e, appunto, intorno agli anni ’80 è iniziato un processo di trasformazione di queste figure, processo che riflette il mutamento progressivo ma sempre più sostanziale del ruolo di genere nelle società occidentali. Questo non stupisce perché, come già accennavo, le riduzioni e le riscritture delle fiabe, peraltro già rivisitate dai fratelli Grimm, riflettono inevitabilmente il mutare degli assetti della società.

Facciamo degli esempi: uno dei miei preferiti è quello che contrappone la “Biancaneve”, del primo lungometraggio Disney del 1937, a Merida di “Ribelle – The Brave” del 2012, perché le caratteristiche anche iconografiche delle due eroine esprimono bene questa metamorfosi. Biancaneve è la principessa in attesa per eccellenza – fondamentale nella narrazione perché senza la principessa la narrazione non procede e questa è una caratteristica che non è mutata – però è pur sempre in attesa, passiva, terrorizzata quando corre in mezzo al bosco e pensa che sia pieno di esseri maligni quando in realtà sono solo coniglietti, cerbiattini e passerotti; mentre Merida, la “ribelle”, che è una principessa altomedievale, rappresenta l’opposto. È una giovane arciera, non è assolutamente terrorizzata dal bosco e riesce a opporsi al destino matrimoniale a lei imposto stranamente dalla madre: in questo caso, infatti, è anche rappresentato in modo diretto il conflitto  generazionale madre/figlia, cogliendo l’evoluzione delle dinamiche relazionali e familiari nel contesto contemporaneo.

“Biancaneve” e “Ribelle” rappresentano i due estremi, in mezzo però per esempio c’è Belle, rimanendo in un contesto pseudo-medievale, Belle de “La Bella e la Bestia” che, a differenza delle principesse in attesa, che di solito devono aspettare di essere salvate dal principe, si trova a salvare sia il padre sia il principe stesso: il padre nella misura in cui si sostituisce a lui, il principe nella misura in cui lo salva con la sua bellezza e la sua intelligenza. Ancora, abbiamo l’apice, e poi finisco sulle principesse stile Disney, con Fiona di “Shrek” (DreamWorks): in questo caso c’è il capovolgimento totale che esprime l’autodeterminazione femminile in maniera davvero esemplare, sempre in un contesto pseudo-medievaleggiante. Perché? Perché Fiona rinuncia alla sua bellezza, quando di solito invece la principessa è  e deve essere molto bella, e questo è un elemento molto importante proprio rispetto all’evoluzione del ruolo di genere della nostra società e al tentativo, stimolato da questa evoluzione anche se forse non ancora compiutamente riuscito, di smontare certi stereotipi. Cosa che è importantissima, perché il pubblico di riferimento è principalmente infantile – anche se, in realtà, la produzione audiovisiva è indirizzata a più livelli di pubblico e, quindi, è utile anche a un’audience adulta.

Questo per quanto riguarda le principesse “Disney”, dopodiché abbiamo l’evoluzione della figura femminile in contesti medievaleggianti che potremmo individuare tra “Star Wars” e “Game of Thrones”, prendendo a esempio due grandi miti contemporanei, che hanno dominato e dominano quasi quotidianamente la cultura pop. Ma non solo, perché anche “Hunger Games”, che rappresenta un Medioevo prossimo venturo, recupera elementi della tradizione incentrata su una figura femminile, che possiamo definire una principessa anche se non lo è. In questo specifico caso la principessa è l’eroina della storia e, come accade a Merida, inizia a maneggiare in maniera sempre più consapevole e abile l’arco e le frecce. Tornando a “Star Wars”, la trasformazione della principessa la riscontriamo dunque a partire agli anni ‘70, perché Leia ha un un ruolo fondante, sa usare la spada molto bene e ha un ruolo centrale in un’azione della quale lei è uno dei principali elementi motori. Questa evoluzione nel ciclo di “Star Wars” è evidente nell’ultimo episodio che, nonostante abbia fatto storcere il naso a molti, si incentra su una eroina, la jedi Ray, e quindi di nuovo enfatizza la capacità femminile di utilizzare l’arma addirittura meglio dei jedi uomini.

Però è ne “Il Trono di Spade”, secondo me, che si individua un salto di qualità. Nel senso che finora gli esempi riportati vedono il passaggio per così dire dal fuso, se pensiamo all’altra principessa in attesa per eccellenza che è la “bella addormentata”, alla spada; lo schema è lo stesso, poi variamente elaborato e proposto. Per me il salto di qualità ne “Il Trono di Spade” che pullula di personaggi femminili a partire da Daenerys, è rappresentato da Arya Stark. Perché Arya Stark è una novità assoluta rispetto a tutte le altre figure femminili che abbiamo incontrato (Merida, Daenerys, Katniss, Ray, etc.).

È una novità assoluta perché porta alle estreme conseguenze l’autodeterminazione delle principesse contemporanee, e  in questo senso rappresenta il punto di arrivo e il punto di partenza di una metamorfosi inarrestabile, per lo meno nelle narrazioni stimolate dalla nostra società. Grazie a una serie di passaggi attraverso i quali cresce e si trasforma, Arya Stark è davvero la conditio sine qua non, la “dea ex machina” della narrazione. E la sua è un’autonomia totale caratterizzata da un qualcosa di più virile di qualsiasi forma di autonomia virile, sia per la capacità di agire liberamente, sia per la fluidità del genere, dei sentimenti, dell’azione che rende difficile se non impossibile classificarla all’interno di qualsiasi stereotipo o modello tradizionale. Infatti Arya non è né ingenua prima né disillusa poi, non è una madre, non è una moglie, non è cattiva ma non è neanche del tutto buona, non è ambiziosa, non è una strega, non è una fata e poi non è neanche più sorella né figlia perché, per quanto alla fine ritrovi la solidarietà e la complicità con la sorella Sansa, non è mai orientata da qualcosa che non riesce a controllare. Arya Stark è ‘una ragazza’, che torna, vince il Re della Notte e poi riparte, e questo per me è un tratto straordinario, perché  all’interno della forma tradizionale – che è la forma principessa/eroina della storia – si crea un modello che prima non c’era.

 

  1. Ha toccato un argomento interessante: il fatto che i prodotti dell’industria dell’intrattenimento siano legati al mercato e alla società che ne usufruisce. Quindi se nel XIX e agli inizi del XX secolo avevano ancora bisogno della “principessa in attesa” nel XXI secolo, con i movimenti di emancipazione femminile e con la casistica dei gender studies, abbiamo bisogno di una donna che si salva da sola. Mi permetto però di evidenziare che se da una parte questo servirà ad instradare le giovani generazioni, dall’altra sta virando purtroppo sul politically correct con letture anche retroattive. Quanto i gender studies e il politically correct incidono sul Medioevo e sul messaggio archetipico della fiaba?

Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il politically correct a volte sia applicato in maniera eccessiva.

Penso che questo tipo di sovrainterpretazione e di lettura ‘dietrologica’ sia sterile, poco sensato, e che soprattutto non colga assolutamente il punto: ovvero il fatto che nella produzione culturale di massa si esprimono tratti universali che sono stati intercettati, vere e proprie esigenze collettive, e penso sia normale che queste esigenze siano stereotipe e banali perché, a ben vedere, il banale può essere l’altra faccia dell’universale.

È chiaro che se vogliamo andare a vedere Lancelot du lac di Bresson o il Perceval la Gallois di Rohmer siamo liberissimi di farlo, è altrettanto chiaro che quel tipo di prodotto è connotato in un certo modo, ed è pure altrettanto chiaro che dobbiamo essere liberissimi di andare a vedere “Robin Hood – Principe dei ladri” senza essere ‘accusati’ di essere ‘mainstream’ in senso negativo. Nello specifico dei gender studies e di certe letture forse eccessive,

penso naturalmente che i gender studies abbiano avuto e abbiano un ruolo culturale essenziale, e non solo  dal punto di vista epistemologico ma anche e in primo luogo sociale.

Però, quando si riflette su produzioni pop come quelle di cui stiamo parlando, occorrerebbe lasciare da parte ogni ideologia perché non così pertinente, anche considerando che questi prodotti mettono in modo un indotto economico che non si può certo sottovalutare. Ma, a parte questo, è vero che il pubblico di riferimento, definito mainstream spesso appunto in maniera denigratoria o comunque un po’ snob, non penso venga colpito più di tanto da questo genere di polemiche.

 

  1. Prima di concludere con le principesse, visto che stiamo rivedendo tutte le grandi figure del Medioevo immaginario, vorrei porle una domanda forse un po’ provocatoria. Se non fosse per l’epilogo della storia, secondo Lei, Giovanna D’Arco potrebbe essere considerata una principessa contemporanea?

Effettivamente è un po’ provocatoria e soprattutto è una domanda a cui rispondo in maniera molto personale: secondo me no. No perché, nel mio approccio “pop”, “mainstream”, molto ricettivo rispetto a un certo tipo di produzione, Giovanna D’Arco è percepita immediatamente come una santa o una santa-guerriera, anche nel 2021. Una santa-principessa in una fiaba è difficile da trovare, ed è vero che ci sono state regine diventate sante, ma non sono appunto eroine delle fiabe… Secondo me, nell’immaginario occidentale, Giovanna D’Arco non è una principessa, Giovanna D’Arco è Giovanna D’Arco. Figure come Giovanna D’Arco, Matilde di Canossa o Eleonora d’Aquitania infatti hanno conosciuto numerosissime rielaborazioni, però si parte sempre dal fatto che sono personaggi storicamente esistiti, e quindi da una serie di eventi, fatti, documenti, fonti che li mantengono ben riconoscibili. Penso che la storicità del personaggio faccia sì che la reinvenzione, pensiamo appunto a tutte le riattualizzazioni di Giovanna D’Arco, si basi su un altro livello di riscrittura che intercetta comunque il Medioevo immaginato, ma in modo diverso. Poi c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: mentre la dimensione della fiaba è quella della primissima infanzia, e quindi fa parte di quello che definisco il primo imprinting  di Medioevo, Giovanna D’Arco arriva solo in seguito a popolare l’immaginario individuale, per cui diventa ancor più  difficile collocarla tra le principesse.

 

  1. La ringrazio per aver risposto. Tornando all’argomento principale, se da una parte abbiamo la principessa, un altro elemento fondante del Medioevo immaginario è quello del cavaliere. Noi siamo abituati ad immaginarlo come Re Artù, o come coloro che siedono alla Tavola Rotonda, guerrieri leali, fedeli, valorosi. Nel corso dei secoli, però, sono stati più volte rivisitati. Come siamo arrivati a raffigurare il cavaliere classico come uno jedi? Come si è evoluta questa figura?

Intanto dobbiamo partire dall’assunto che Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda rappresentano i cavalieri per eccellenza, sui quali, peraltro, è disponibile sul web una produzione enorme, anche sulle analogie che portano direttamente da Artù a Luke Skywalker. Nonostante sia divertente individuare queste analogie, in alcuni casi si corre il rischio di esagerare nella ricerca fine a sé stessa senza approfondire, e senza dunque accrescere la riflessione storiografica. Ma procediamo con ordine:

Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda diventano, potremmo dire, un best seller fin dal momento in cui, alla metà del XII secolo, Goffredo di Monmouth scrive la sua opera Historia regum britanniae, e narra le vicende di Merlino e di Artù, da cui deriverà la materia arturiana.

Anche Guglielmo di Malmesbury, altro grandissimo storico della metà del XII secolo, ne parla nella sua opera Gesta regum anglorum, storia dei re di Inghilterra, ma definendo la leggenda di Artù appunto solo una leggenda. Dalla metà del XII secolo, il ciclo arturiano diventa, mi si perdoni l’audacia, un prodotto mainstream, essenziale anche nella “cultura cortese”- basti pensare a Chrétien de Troyes- rielaborato nel Quattrocento da Thomas Malory con Le Morte d’Arthur, fino ad arrivare all’Ottocento e al Novecento, con una serie di riduzioni prima letterarie poi anche audiovisive – Excalibur, Il primo cavaliere ecc.. Esistono altri aspetti interessanti sulle riscritture di Artù, pensiamo per esempio a L’ultima legione di Valerio Massimo Manfredi e alla sua riduzione cinematografica… Tutto questo evidenzia una continuità che parte dal Medioevo e che vede la materia arturiana come grande ciclo di narrazione riproposta continuamente nella diacronia. Perché? E qui c’è un altro tema secondo me molto interessante, che si incrocia con il medievalismo: la necessità per la specie umana di narrare, indagata ora anche in base alle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. Jonathan Gottschall, un professore di letteratura inglese, nella sua opera intitolata L’istinto di narrare, individua alcuni plot narrativi che percorrono la diacronia e che evidentemente rispondono a esigenze primarie per la specie umana. Tanto è vero che, sulla base di vari studi,  egli riprende l’idea dell’homo sapiens come homo fictus, uomo che sente l’istinto irrefrenabile anche di narrare, istinto che è così forte perché risponde a un tratto evolutivo presente nella coscienza, nella mente, nel cervello dell’umanità.

Fin dagli esordi, il ciclo arturiano è un nucleo tematico fortissimo nelle narrazioni che, ricordiamolo, devono anche insegnare a vivere mettendo in scena, nella e con la fantasia, scenari che implicano i sentimenti e le azioni fondamentali nella vita di ogni persona: la lealtà, il coraggio, l’amicizia, la slealtà, l’inganno, il tradimento, il sacrificio.

Questo nucleo fortissimo arriva fino a noi, che lo rielaboriamo quasi sempre in senso medievaleggiante, anche quando il protagonista non si chiama Artù, ma Luke o Harry….

I cavalieri jedi sono guardiani da mille generazioni, difensori della pace e della giustizia nella galassia, sono cavalieri monaci, peraltro, e hanno spade laser, perché alla fine cos’è che connota il cavaliere senza macchia e senza paura? La spada, come Excalibur. Pensiamo anche a Harry Potter, che cosa utilizza? La bacchetta magica. Ancora, quelle analogie fra Artù e Luke Skywalker che si trovano sul web – sempre senza cadere nel gioco eccessivo dell’analogia – , sono fondate perché è noto che alla base della sceneggiatura di Lucas e della produzione di Star Wars ci siano riferimenti storiografici e letterari. Obi-Wan è Merlino, un cavaliere e mago eremita, che insegna la sapienza ancestrale che solo gli eletti possono capire, ma può essere anche Albus Silente; e  Luke Skywalker è Artù e, in qualche modo, anche Harry Potter. C’è sempre un prescelto, orfano o illegittimo, un bambino da solo e predestinato, che agisce attraverso una spada – o, nel caso di Harry Potter, una bacchetta – accompagnato da un partner: Han Solo, Lancillotto, Ron Waesley. Lancillotto nel caso di Star Wars viene recuperato in maniera edulcorata, perché un altro aspetto importante delle riscritture è che intercettano il desiderio del pubblico. Come i fratelli Grimm nell’Ottocento edulcorarono una serie di fiabe rispondendo alle esigenze della società del tempo – per esempio La bella addormentata che, nella versione originale ripresa da Charles Perrault, vede la principessa dopo il suo risveglio rischiare di essere assassinata dalla suocera orchessa -, così nel caso di Han Solo/Lancillotto l’iniziale conflitto per Leia viene risolto fortunatamente grazie al fatto che uno dei due cavalieri che la contendono è suo fratello. Quindi anche quel tipo di conflitto, funzionale nella narrazione medievale ma inefficace in un prodotto di larga fruizione– nessuno, infatti, voleva lo scontro tra Han Solo e Luke Skywalker – viene eliminato, rispondendo alle esigenze del pubblico, cosa più che necessaria per produzioni che hanno costi enormi da compensare. Han Solo, tra l’altro, potrebbe essere legato anche a Robin Hood, in una bella fusione di due grandi miti medievali. La continuità, secondo me, è legata a questo istinto di narrare, per cui il plot narrativo incarnato in quel momento da Artù è proseguito poi in una serie di diramazioni. I cavalieri jedi però, rispetto a quelli arturiani, hanno una dimensione che richiama la sacralità e che, quindi, fonde anche altri elementi che riflettono questa evoluzione.

–   Chiedo una Sua opinione: tra Artù, Lancillotto e Parsifal, chi è che incarna il cavaliere per eccellenza?

Secondo me Artù, naturalmente, poi dipende dal tipo di formazione e di gusti di ognuno, ovvero se uno ha preferito King Arthur o Il primo cavaliere, dove Richard Gere è Lancillotto e Artù è interpretato da Sean Connery (che è stato anche Riccardo Cuor di Leone e Robin Hood) e magari preferisce Lancillotto… Ma a prescindere da questo, secondo me è Artù perché è il cavaliere predestinato, mentre nel caso di Lancillotto il problema è il tradimento dell’amico, che non è solamente un amico. Questo è un grande tema, un archetipo: le tragedie greche sono più concentrate sui tradimenti familiari, questo invece è il tradimento del clan, rispetto alla sua coesione interna, ai suoi meccanismi, ed è un tabù che Lancillotto rompe. Quindi Lancillotto, per quanto mi riguarda, ha questo vulnus iniziale, questa macchia indelebile, ma si tratta appunto di una mia opinione e non di una interpretazione scientifica o filologica.

 

  1. Lei prima ha nominato un personaggio che penso sia il caso di affrontare: Robin Hood, l’incarnazione della figura dell’eroe. Abbiamo visto tantissime rappresentazioni e trasposizioni cinematografiche, di cui penso che la più famosa sia “Robin Hood – Il principe dei ladri”, senza però dimenticare il cartone animato della Disney, che ha condizionato l’immaginario di molti. Robin Hood oggi è sicuramente un eroe però, se da una parte è vero che come nel caso di Artù la leggenda è di origine medievale, dall’altra non è esattamente come lo percepiamo noi oggi.

Matteo Sanfilippo ha studiato a fondo la tradizione relativa a Robin Hood come nucleo narrativo e personaggio leggendario, come eroe nella diacronia.

Anche se le prime ipotetiche fonti risalgono alla seconda metà del XIII secolo – inizio del XIV, è soprattutto tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che si è scatenata una ricerca filologica sulla storicità di questo personaggio.

Tanto è vero che la prima testimonianza documentaria, considerata attendibile dagli studiosi, è un atto del 1262 sull’esistenza di un delinquente del Berkshire che era soprannominato “Rob Hood”, da cui appunto sarebbe derivato il nome di Robin Hood. Si riteneva che questo epiteto fosse utilizzato per individuare i banditi di strada, e che si sarebbe poi evoluto nel nome di un personaggio ben definito. La diffusione delle storie di Robin Hood passa attraverso la circolazione, a livello popolare, di una serie di ballate tramandate oralmente, con protagonista un arciere di verde vestito, ballate che nel corso del Quattrocento vengono recuperate e riscritte disegnando però il prototipo del comune fuorilegge, con alcuni tratti che noi non siamo abituati ad attribuire a Robin Hood, perché questo arciere è maligno, irriverente, furbo, un po’ losco. Lentamente, a partire dal Quattrocento, queste riscritture, che vengono anche messe in scena nelle piazze, lo rimodulano, lo trasformano nel ladro buono e generoso che inizia a ridistribuire le risorse del bottino tra i più bisognosi. Anche la figura di Marian è legata alla rielaborazione dei protagonisti di narrazioni popolari, forse della “Regina di Maggio”, la regina della primavera.

In ogni caso, a partire dal Quattrocento si assiste a una rivalutazione del fuorilegge, che diventa prima il ladro buono e generoso, poi addirittura un aristocratico vittima di ingiuste espropriazioni, sempre molto scanzonato e generoso ma ora anche blasonato.

E fra Settecento e Ottocento questa origine aristocratica è identificata in un conte di Huntingdon, nato intorno al 1160, privato del suo feudo, che reagì al sopruso dandosi alla macchia, riunendo intorno a sé un gruppo di fedeli tra cui Little John – presente a sua volta nelle narrazioni popolari – e iniziando a rubare ai ricchi per dare ai poveri. Lei ha fatto riferimento alle riscritture contemporanee di Robin Hood a partire da quella di Walt Disney per arrivare al “Robin Hood – Principe dei ladri”, successo strepitoso di pubblico e pessimo dal punto di vista critico, le quali riprendono benissimo un certo tono da ballata popolare. Kevin Costner, infatti, è scanzonato e anche il rapporto con Marian non è drammatico – come invece nel film Robin e Marian con Sean Connery – malgrado la tragedia iniziale e malgrado l’assassinio del padre di Robin da parte del perfido Sceriffo di Nottingham. Senza contare che lo Sceriffo è superbo, una vera icona “pop”, cattivissimo, e poi non dimentichiamo l’inserimento delle pratiche sataniche, insomma è tutto molto efficace rispetto alla rinarrazione, con in più l’aggiunta, se vogliamo pensare di nuovo al politicamente corretto, di Azeem, personaggio in realtà più “attendibile” dello sceriffo lisergico… La circolazione di idee e di uomini fra Oriente e Occidente, per usare definizioni ampie e forse generiche ma chiare, era una realtà, a differenza di quanto una certa lettura del Medioevo ‘storico’, attraverso stereotipi e luoghi comuni-  ci abbia fatto pensare. In questo caso è chiaro che il personaggio è funzionale alla storia e al contesto di riferimento: Azeem è il saggio, colui che condivide le sue conoscenze scientifiche all’avanguardia con Robin Hood e che diventa per lui un nuovo compagno accanto a Little John. Quindi anche in questo caso vale il discorso della riscrittura, che all’apparenza mantiene intatta la forma tradizionale ma la arricchisce, la modula, la cambia, è in parte il discorso che facevo prima per Arya Stark.

È interessante notare come la continua rivisitazione di questi miti abbia successo quando integra la tradizione ma senza cambiarla nel profondo

– pensiamo al fatto che “Il principe dei ladri” ha avuto più successo del Robin Hood “storico” di Ridley Scott e che il King Arthur del 2004 non lascia la sensazione di aver visto davvero un film su Artù.

 

  1. Prima di parlare di un altro grande sogno come quello dell’Oriente, vorrei porle un’ultima domanda su un altro grande elemento che caratterizza l’immaginario medievale: il castello, che forse è proprio il simbolo del Medioevo, mitizzato anche grazie al neogotico o allo stile “fiabesco”. Quanto sono importanti il castello e i revival architettonici nella percezione di questo periodo?

Il castello è praticamente l’inconema del Medioevo, il suo luogo per eccellenza.

Ma questo castello che noi pensiamo medievale, è un’invenzione ottocentesca, che prende le mosse dal gothic revival a partire dalla seconda metà del Settecento.

Peraltro questa forma architettonica medievale, del castello, del gothic revival, della cattedrale, è diventata davvero globale, perché in Nuova Zelanda, in Australia, negli Stati Uniti, quindi anche in aree geografico-territoriali che non hanno conosciuto il Medioevo – inteso come epoca storica -, tutti questi elementi hanno trovato spazio, si sono materializzati. È la dinamica perfettamente descritta da Renato Bordone, che vede trasmettere dall’Inghilterra agli Stati Uniti per poi tornare in Europa una serie di elementi architettonici, che nel caso dei castelli sono i merli fatti a merlo, il ponte levatoio, le finestrelle ad arco, le segrete, le armature, tutti gli elementi che connotano il castello per eccellenza, quando in realtà il castrum medievale, era naturalmente tutta un’altra cosa. Molti dei castelli che noi riteniamo medievali, sono il risultato di ricostruzioni e rifacimenti di strutture già storiche o situate in siti medievali, ma totalmente rifatte. Faccio un esempio che mi è vicino anche geograficamente: la Rocchetta Mattei, edificata alla metà dell’Ottocento dal conte Enrico Mattei in un sito che, quasi certamente, era stato sede di una fortificazione, ma che di fatto è divenuta un sogno a metà  tra il Medioevo e l’Oriente. Per non parlare del castello di Neuschwanstein che ha ispirato quello de La bella addormentata o di luoghi ‘medievali’ in buona parte ricostruiti come San Gimignano, come Carcassonne, o della meravigliosa cattedrale di Clermont-Ferrand restaurata da Viollet-le-Duc , o della guglia di Notre Dame e dei gargoyles, che sono tutti parte di un mondo per noi così totalmente medievale, ma che in realtà sono il risultato di una ricostruzione ottocentesca. Il castello rimane il luogo del Medioevo, ma di quello immaginario e immaginato che è il Medioevo della fiaba.

 

  1. Le ho rubato già molto tempo ma, prima di salutarci, vorrei affrontare brevemente con Lei un ultimo argomento: il sogno dell’Oriente. L’uomo dall’alba dei tempi è affascinato da quello che non ha e, in questo caso, l’Occidente e l’Oriente si sognano a vicenda. Anche l’architettura e la filmografia hanno sicuramente inciso, abbiamo nominato prima il caso di Rocchetta Mattei e la presenza di Azeem in Robin Hood. A questo punto vorrei chiederle: cos’è l’Orientalismo e quali sono i suoi punti di contatto con il Medievalismo?

Se si parla di orientalismo, è obbligatorio un riferimento a Edward Said e all’immagine europea dell’Oriente. L’Oriente è un sogno dell’Occidente – esattamente come lo è il Medioevo – per il posto speciale che, nell’esperienza dell’Europa occidentale, esso occupa già a partire dall’Età Classica, perché  è vicino all’Europa, è la fonte della civiltà e delle lingue, delle religioni e ha contribuito a definire per contrapposizione l’immagine dell’Europa stessa.  Questo Oriente che l’Europa ama, afferma Said, è l’Oriente dell’orientalismo – come il Medioevo del medievalismo – e non è puramente immaginario, perché è parte integrante della civiltà europea, anche in senso geografico.

Se il medievalismo per l’Occidente rappresenta il sogno del Medioevo, l’orientalismo rappresenta il sogno dell’Oriente che l’Occidente ha codificato non solo come contrapposizione ma anche come alterità.

Come sottolinea Franco Cardini, il medievalismo e l’orientalismo nascono contemporaneamente nel corso dell’Ottocento come altro tempo e come altro spazio e si inseguono, si intrecciano, si scavalcano, si affiancano per tutto il secolo e oltre.

Il sogno del Medioevo è il sogno dell’altro nel tempo, il sogno dell’Oriente è il sogno dell’altro nello spazio.

E l’Oriente rappresenta anche il sogno del Medioevo durante il Medioevo storico, nel quale appunto il sogno era l’altro nello spazio e, quindi, Sherazade e, quindi, l’ Oriente vagheggiato, sognato, immaginato, descritto come luogo delle meraviglie,  esattamente come noi ora vagheggiamo, sogniamo, immaginiamo e descriviamo il Medioevo.

 

  1. Ultimissima domanda: secondo Lei quanto è importante ad oggi studiare il medievalismo per comunicare il Medioevo?

Secondo me è fondamentale perché di fatto il concetto di Medioevo nasce quando il Medioevo è finito, quindi potrebbe essere definibile anche come forma di medievalismo, se il medievalismo è l’uso, la percezione, la ricezione, l’interpretazione del Medioevo dopo il Medioevo stesso.

Noi tuttora viviamo immersi nel Medioevo, che è il principale mito-motore della società contemporanea; noi ci viviamo dentro, e lo vediamo quando entriamo nel Palazzo Comunale costruito tra XIII e XIV secolo, quando andiamo in piazza, nelle cattedrali e nelle chiese, molto spesso risalenti all’epoca medievale.

Gli usi attuali del Medioevo sono fondamentali perché evidenziano aspetti che servono ad interpretare e a leggere il contesto contemporaneo.

Fare storiografia, studiare la storia, non è solamente ricostruire ciò che è accaduto, ma anche fare i conti con la percezione che si ha, all’interno della società, di ciò che è accaduto e indagare come questa percezione, anche e soprattutto quando è distorta, influisca sulla società stessa. Il Medioevo militante di Tommaso di Carpegna che da questo punto di vista è illuminante, basti solo pensare al tema delle crociate… E allora, è più importante studiare esattamente solo le diverse fasi di ogni crociata a partire dal 1095 o anche come le crociate vengono recepite ancora in età contemporanea? Secondo me è importante allo stesso modo. Considerando l’onnipresenza del Medioevo immaginato nella nostra società, penso sarebbe opportuno che il medievalismo come ambito disciplinare entrasse appieno nell’ambito della medievistica, abbandonando ogni eventuale gerarchia di valori.

 

Ringraziamo la Professoressa Roversi Monaco per questa bellissima chiacchierata e speriamo di ritrovarla presto in altre occasioni medievaleggianti.

 

Martina Corona

 

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Written by : Redazione

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