La nostr’amor va enaissi
com la brancha de l’albespi,
qu’esta sobre l’arbr’en creman,
la nuoit, ab la ploi’ez al gel,
tro l’endeman, que·l sols s’espan
per la feuilla vert el ramel
“Così è il nostro amore:
come ramo di biancospino,
che si appoggia ad un albero, tremante
nella notte, alla pioggia e al gelo,
fino all’indomani, quando il sole si diffonde
a rinfrancare, tra il verde fogliame, il ramoscello.”
Nel Medioevo la società, almeno per un certo periodo, era dominata dal feudalesimo, cioè l’organizzazione politica e economica basata sul feudo, il terreno. I signori risiedevano nei castelli sparsi per la campagna, e a partire dal IX secolo, i costumi di vita furono semplici e rudi, fortemente impregnati dello spirito militaresco proprio all’aristocrazia terrena, grazie anche all’Istituto della Cavalleria. Spesso anche i cavalieri , i quali erano principalmente soldati, riuscivano ad ottenere un possesso fondiario, permettendogli di diventare signori territoriali. Secondo la gerarchi dell’epoca però, la maggior parte delle volte i cavalieri erano reclutati direttamente da un signore, tramite l’istituto del vassallaggio, stabilendo un rapporto reciproco ma non paritario. La fedeltà giurata del cavaliere-vassallo gli comportava l’obbligo di servire in guerra e di partecipare all’assemblea convocata dal signore, il quale in cambio della fedeltà, gli concedeva la sua protezione, l’usufrutto di una terra, l’equipaggiamento e l’addestramento con il mantenimento.
I membri dell’ordine della cavalleria dovevano condividere un insieme di valori fondamentali in determinati ceti sociali, come l’onore, il coraggio, la lealtà, la generosità verso i bisognosi e l’essere sempre pronti a combattere per la giustizia e per la difesa della religione cristiana. Proprio grazie alla diffusione di questi notevoli valori cavallereschi, nel corso del XII secolo si ebbe una sensibile trasformazione dei costumi all’interno delle corti. Queste divennero via via più eleganti, colte e raffinate specialmente presso i castelli dei grandi signori feudali di Francia, sempre più insofferenti dell’autorità e del controllo esercitati dal sovrano nei loro confronti. Così la vita di corte divenne vissuta e condizionata da una serie di precise regole definite “cortesi” (da corte, a sua volta dal latino Curtis = “cortile” del castello attorno al quale si svolgeva tutta la vita del signore e del gruppo di persone da cui era circondato). Ai valori tipicamente militari connesse con l’istituzione della cavalleria ne vennero acquistate altre come la liberalità, cioè il disprezzo per il meschino attaccamento al denaro e per la mentalità calcolatrice tipica del mercante (la nuova classe sociale nascente); la magnanimità, cioè l’assenza di egoismo e quindi la capacità di essere generosi e pronti alla rinuncia al sacrificio; l’eleganza dei modi e del portamento e la raffinatezza dei gusti nella conversazione. In una sola parola la cortesia, contrapposta alla villania (cioè la spregevole e volgare rozzezza dei villani, dal latino villa cioè tenuta di campagna). Proprio le virtù cortesi tra il XIº e il XIII secolo divennero il tema principale di un nuovo genere letterario: la letteratura cavalleresca. Poeti e romanzieri francesi, tedeschi e anglo-normanni iniziarono a celebrare nelle loro opere le virtù non soltanto guerresche dei cavalieri, ma anche i nuovi e alti valori morali vissuti nella corte.
Fulcro di questo ideale di vita ovviamente riservato all’aristocrazia cortese era la donna (castellana o dama di corte) in quanto simbolo e fonte principale delle virtù cortesi, al punto che la sua sola presenza, il suo sguardo e il suo saluto costituivano un’occasione di elevazione morale spirituale per tutti coloro che contemplavano la sua grazia e bellezza. Il culto della donna diviene il tema dominante della letteratura dell’età feudale e si espresse attraverso una particolare concezione dell’amore, secondo cui l’amata veniva intesa come un essere sublime e irraggiungibile degno di venerazione come un angelo: un amore che oggi verrebbe definito platonico, cioè puramente intellettuale spirituale, privo delle componenti fisiche proprie dell’amore “non cortese”, contraddistinto invece da riservatezza e pudore, costantemente sospeso tra desiderio e appagamento. Rispetto la donna l’uomo si sentiva inferiore e si dichiarava assolutamente sottomesso alla sua volontà, rispecchiando in questo atteggiamento la stessa sottomissione del vassallo o del cavaliere al suo signore. In particolare il cavaliere compiva due imprese per conquistare il cuore dell’amata, ma ciò che contava era soprattutto il sentimento che egli provava, in quanto già l’amore veniva considerato un valore in sé. Dal momento che però in cambio della propria devozione l’amante non chiedeva nulla, il suo sentimento si rivelava perennemente inappagato, quindi motivo di gioia e di tormento insieme; e poiché le virtù della donna ingentilivano, cioè nobilitavano l’animo dell’uomo, amare voleva dire compiere un continuo esercizio di purificazione di raffinatezza interiore. Solo chi era cortese e gentile poteva amare finemente è solo l’amor fino rendeva sua volta cortesi e gentili.
La tematica dell’amor cortese apparve per la prima volta durante il XIII secolo nelle poesie in lingua d’oc dei trovatori provenzali. Il termine trovatore deriverebbe dal verbo provenzale trobar, cioè comporre musica e versi. La poesia dei trovatori infatti era una poesia destinata al canto, non alla lettura dal libro e tantomeno alla recitazione: il verbo trobar significa proprio comporre sia il testo che la melodia, motz e so, l’uno integrativo all’altra e che insieme formano l’obra, cioè il componimento. Frequentemente erano i trovatori stessi a cantare personalmente le loro poesie al pubblico della corte, accompagnandosi con l’arpa, il liuto o la viella, uno strumento simile al violino; spesso però potevano anche affidarne l’esecuzione a cantori professionisti e giullari. In un primo tempo la loro produzione fu affidata esclusivamente alla tradizione orale; soltanto a partire dal XIII secolo viene affidata la scrittura alla lettura. Di varia estrazione sociale godevano di fama straordinaria, tanto da essere spesso circonfusi da un alone leggendario. L’elemento più caratterizzante della poesia dei trovatori è la rima e versi dei componimenti dei trovatori sono organizzati in periodi strofe, o stanze (l’unità melodica di base della composizione), che i poeti chiamano coblas. La grande maggioranza delle poesie dei trovatori è conclusa da un congedo, a cui in epoca successiva fu dato il nome di tornada: in esso l’autore esprime considerazioni sulla propria opera o sulla melodia, o dedica il pezzo a una dama o un mecenate o a un collega poeta. Furono proprio i trovatori a inventare la canzone, un componimento che essi consideravano il genere lirico per eccellenza. Due furono gli stili poetici, entrambi estremamente raffinati, con cui i trovatori elaborano i loro componimenti:
- il trobar leu o “poetare leggero”, caratterizzato dalla limpida semplicità del lessico, dall’immediatezza delle immagini e dalla leggerezza melodica dei versi;
- il trobar clus o “poetare chiuso”, caratterizzato invece da un lessico raro e difficile, da immagini metaforiche molto complesse e da rime dei suoni ricercati e inusuali; tipico di questo trobar era l’uso dei Senhal, cioè di pseudonimi o termini cifrati cui il poeta ricorreva per tenere celata la vera identità della donna amata (come fece Petrarca per la sua Laura) e dissuadere secondo le norme dell’amor cortese gli sconvenienti pettegolezzi dei lauzengiers, cioè i maldicenti invidiosi della corte.
Presenti nelle corti feudali del sud della Francia (in particolare nella Provenza, ma anche Linguadoca e in Aquitania, zone in cui il volgare parlato era appunto il provenzale o lingua d’oc), dove la società cortese aveva raggiunto i più alti vertici di raffinatezza, questi poeti furono i primi a far rinascere la lirica dopo la fine del mondo classico. Grazie al processo di idealizzazione della donna in senso morale e spirituale attuato dalla cultura cortese, la poesia poteva ora ritornare a cantare l’amore profano, che l’egemonia della Chiesa aveva annullato nel mondo medievale (in quanto la donna era indicata come simbolo del peccato): anche l’amante dell’amor cortese, proprio come l’amante di Dio, non si attendeva alcuna ricompensa per la sua passione amorosa, il cui unico esito possibile era la lode per la donna amata.
La lirica trobadorica ebbe una vasta diffusione in tutta l’Europa occidentale, come testimoniato dalla grande quantità di manoscritti che ne hanno tramandato i testi: oltre 2500 poesie, per un totale di circa 450 autori. Molti di essi si trasferirono anche in Italia e la loro influenza fu tale che numerosi rimatori italiani, specialmente dell’area lombardo-veneta, composero i loro versi in lingua d’oc, come Sordello da Goito e Pier della Caravana. Dei trovatori provenzali, il cui capostipite fu Guglielmo IX d’Aquitania, si distinguono tre generazioni:
– la prima (prima metà del XII secolo) trova i suoi maggiori rappresentanti in Jaufrè Rudel, spesso ispirato dal dolore provato dagli amanti per la reciproca lontananza, il cosiddetto amore di lontano, e Marcabrun, moralista rigido e severo censore dei costumi dell’epoca, le cui composizioni, di frequente oscure e molto elaborate inaugurarono il trobar clus.
– La seconda generazione (seconda metà del XII secolo) fu quella di Bernart de Ventadorn, voce dolce del trobar leu, di Arnaut Daniel, citato da Dante come “maestro di stile” per le rime complesse e dal lessico raro, e di Bertrand the Born, che sempre Dante definisce “cantore delle armi”, perché specializzato nel genere del sirventese (tipo di canzone incentrata su temi morali, politici o polemici).
- La terza generazione trobadorica (tra il XII e il XIII secolo), ebbe come protagonisti Folquet de Marselha , Folchetto di Marsiglia, divenuto poi monaco e vescovo di Tolosa, e Raimbaut (Rambaldo) de Vaqueiras che ricoprì un ruolo fondamentale nel diffondere la poesia lirica provenzale in Italia. La raffinata stagione dei trovatori si concluse brutalmente all’inizio del XIII secolo in seguito alla crociata contro gli Albigesi indetta da Papa Innocenzo III, per estirpare l’eresia catara che si diffuse soprattutto in Provenza e nelle zone limitrofe. Quando re di Francia Filippo Augusto e suo figlio e successore Luigi VIII aderirono alla persecuzione, si scatenò una delle guerre più spietate della storia europea, iniziata nel 1209 e durata vent’anni. I signori dell’Occitania vennero cacciati e della loro splendide corti non fu lasciata traccia: stesso destino ebbero i trovatori, che si dispersero e di quel mondo cortese cantano nelle loro poesie scomparve per sempre.
Un esempio chiaro per comprendere i temi tipici della lirica trobadorica è il componimento Come il ramo di biancospino, di Gugliemo IX di Aquitania. Duca d’Aquitania, settimo conte di Poitiers, Guglielmo IX visse tra il 1071 e il 1127. Fu uno dei signori feudali più potenti del suo tempo, tanto che i suoi possedimenti si estendevano dalla Loira ai Pirenei. Amante della guerra e dell’avventura, tra il 1101 e 1102 organizzò una sfortunata crociata in Terrasanta; mentre maggior successo ebbe una spedizione contro i musulmani in Spagna cui partecipò personalmente nel 1117.
Corteggiatore di belle dame, descritto anche anche troppo audace e sfrontato direttamente dai suoi testi, Guglielmo fu anche il primo trovatore provenzale di cui ci si è aggiunta la produzione. La lirica di Guglielmo IX si configurò ben presto come modello da cui la poesia trobadorica successiva prese riferimento. Del duca d’Aquitania ci sono pervenuti dieci componimenti: sei (indirizzati ai compagni di corte e di avventure) si distinguono per il contenuto spesso libertino, espresso con toni comico-giullareschi; tre, ben più delicati, sono incentrati sul tema dell’amor cortese, mentre nell’ultimo l’autore sembra congedarsi dalla vita con toni di sincero pentimento per le proprie passioni. Come il ramo di biancospino è una delle più celebri liriche dell’intero repertorio trobadorico: il componimento si focalizza sulle tematiche tipiche dell’amor cortese, attribuendo il rapporto amoroso tra il poeta amante e la sua dama i caratteri del rapporto feudale tra il vassallo e suo signore. Il componimento esordisce con una delicata descrizione della primavera, che comunemente, e non solo nella poesia trobadorica, coincide con la stagione dell’amore: è lo stesso poeta sottolineando nei versi 5 e 6. La struggente dolcezza della stagione, però, si contrappone alla sofferenza dell’amante, tema costante della poesia lirica, che non osa dichiararsi di fronte all’apparente indifferenza dell’amata. Un amore segreto il suo, che tuttavia si nutre di speranze e di ricordi. Infatti, come il sole in frasca ramo fiorito, così l’amore ristora il suo cuore si rivela esperienza gratificante qualunque sia il suo percorso. Il ricordo, altro tema portante della poesia, (nella quarta strofa) si fonde con l’esplicita volontà dell’amante di sottomettersi interamente alla sua donna come il vassallo al suo signore. Interpreti il desiderio del poeta sono alcune immagini, tratte dal mondo cavalleresco e cortese in cui si colloca tutta la produzione provenzale. Infine l’ultima strofa evoca le figure dei maldicenti invidiosi, le cui chiacchiere possono distruggere un sentimento fragile e delicato come l’amore: il linguaggio poetico non è sempre di facile comprensione perché, oltre che rifarsi al mondo cavalleresco, risponde alla norma del ben celare, regola tipicamente provenzale che imponeva all’amante di non rivelare, di celare appunto, il proprio sentimento e qualsiasi esplicita allusione alla sua amata, perché la donna non fosse coinvolta in pettegolezzi e maldicenze. Della donna infatti il lettore non conosce nulla: il poeta la evoca attraverso cenni, ricordi, con uno pseudonimo cioè (Buon Vicino) e con immagini fortemente simboliche tipiche del mondo medievale (come le mani coperte dal mantello, la terra il coltello). Il componimento rivela, dunque una tecnica molto raffinata, ricca di di temi e di descrizioni che esaltano il sentimento d’amore senza mai rivelarne l’oggetto, soffermandosi piuttosto sui turbamenti degli stati d’animo dell’amante.
In gran parte delle liriche della poesia trobadorica il tema centrale è l’amore per una donna gentile così la definisce il poeta, enigmatica e segreta, come le altre donne oggetto dell’amor cortese. Analizzato nelle sue contraddizioni, l’amore può provocare gioia e dolore allo stesso tempo, è una malattia preferibile a ogni possibile benessere, male e bene insieme, esaltazione suprema dopo il tormento. La donna è una figura misteriosa e per questo più seducente, crudele, ma gentile e dotata dell’immenso potere di decidere delle sorti del suo amante. Di fronte a lei l’amante è spesso indifeso come un bambino, disposto alla sottomissione totale e speranzoso di ottenere la sua misericordia. È una situazione tipica della lirica provenzale, nella quale ritornano le immagini della donna che domina incondizionatamente il cuore dell’uomo disposto a tutto pur di ottenere da lei un cenno, un segnale d’attenzione. Attraverso un linguaggio passionale ma limpido, e mai eccessivo, si compone il perfetto esempio di equilibrio formale della poesia dei trovatori.
Ab la dolchor del temps novel
foillo li bosc, e li aucel
chanton, chascus en lor lati,
segon le vers del novel chan:
adonc esta ben c’om s’aisi
d’acho dont hom a plus talan.
De lai don plus m’es bon e bel
non vei mesager ni sagel,
per que mos cors non dorm ni ri
ni no m’aus traire adenan,
tro qu’eu sacha ben de la fi,
s’el’es aissi com eu deman.
La nostr’amor va enaissi
com la brancha de l’albespi,
qu’esta sobre l’arbr’en creman,
la nuoit, ab la ploi’ez al gel,
tro l’endeman, que·l sols s’espan
per la feuilla vert el ramel.
Enquer me menbra d’un mati
que nos fezem de guerra fi
e que·m donet un don tan gran:
sa drudari’e son anel.
Enquer me lais Dieus viure tan
qu’aia mas mans soz son mantel!
Qu’eu non ai soing d’estraing lati
que·m parta de mon Bon Vezi;
qu’eu sai de paraulas com van,
ab un breu sermon que s’espel:
que tal se van d’amor gaban,
nos n’avem la pessa e·l coutel.
Martina Michelangeli x Medievaleggiando