Abbiamo già avuto modo di parlare dell’Inquisizione in un articolo che forniva una breve panoramica su questa tanto temuta istituzione, ma per poter continuare a parlarne occorre soffermarsi a descrivere le fasi di un processo inquisitorio.

Bisogna innanzitutto rammentare due cose: primo che per volontà di Federico II l’eresia equivaleva al delitto di lesa maestà, uno dei crimini più gravi e di conseguenza richiedeva punizioni adeguate; secondo che scopo dell’inquisitore era la salvezza dell’anima dell’eretico e che perciò puntava a una sua confessione fino alla fine del processo.

Prima di iniziare ad indagare, l’inquisitore, si presentava alle autorità civili per chiedere il loro appoggio, successivamente teneva un’accorata predica al popolo e ingiungeva a chiunque fosse a conoscenza di pratiche o persone non conformi alla dottrina di presentarsi da lui entro un determinato periodo. Chi si fosse presentato riceveva speciali indulgenze, inoltre non era tenuto a provare nulla o a sostenere l’accusa; nel caso invece in cui un eretico si fosse autodenunciato entro il termine stabilito e avesse abiurato sarebbe incorso in pene assai leggere. Spesso però accadeva che non vi fosse alcuna denuncia e quindi l’inquisitore avviava un’indagine segreta. Si dava molto credito alla voce pubblica, raccolta tramite le testimonianze; un testimone solitamente non sapeva per cosa era stato chiamato, gli erano poste domande generiche e a trabocchetto proprio per ricavare più informazioni possibili. Il valore delle testimonianze variava secondo le persone, età, sesso, stato, ad esempio la parola di un chierico era superiore rispetto a quella di un laico, però in nessun caso un solo testimone bastava a ritenere provata una determinata circostanza. Una volta finita questa fase si procedeva a citare l’accusato e a un primo interrogatorio volto a produrre una confessione.

L’imputato, al quale venivano confiscati i beni e restituiti qualora fosse stato assolto o avesse confessato, se si fosse dichiarato colpevole e avesse abiurato subito avrebbe ricevuto peni lievi, la confessione doveva essere convincente e da sola non bastava ma doveva essere supportata da prove o presunzioni. Qualora l’indiziato non avesse confessato si procedeva con l’interrogatorio dove l’inquisitore dimostrava tutte le sue doti dialettiche cercando di far cadere in trappola l’accusato, all’interrogatorio partecipavano almeno due cittadini di riprovata rispettabilità per evitare abusi di potere. Se l’inquisitore si trovava di fronte a un accusato assai reticente era autorizzato, a torturarlo e la cosa non deve stupirci poiché la tortura trovava la sua giustificazione nell’estimazione del danno arrecato alla società da parte del reo. Nel 1252 Innocenzo IV acconsentì all’uso della tortura durante i processi inquisitoriali, ma la sua messa in pratica doveva essere lasciata al braccio secolare. Dato che spesso nascevano conflitti, qualche anno più tardi papa Alessandro IV concesse agli inquisitori di torturare senza ricorrere al tribunale laico, mai però in prima persona. Il supplizio era inflitto solo in ultima istanza quando il condannato, a fronte di prove evidentissime, non confessava, inoltre le confessioni estorte sotto tortura dovevano essere confermate in un secondo momento, sotto giuramento, e se qualcuno avesse ritrattato sarebbe stato accusato di spergiuro e punito di conseguenza.

Il lavoro dell’inquisitore era sostenuto da una schiera di notai, cancellieri che si occupavano di annotare tutto quello che veniva fatto; inoltre per la valutazione delle prove e per la decisione se si dovesse procedere con la causa si doveva avvalere dei cosiddetti boni viri. Questi possiamo definirli dei periti del diritto, erano quasi tutti membri del clero o laici in possesso di determinati requisiti e la loro presenza doveva garantire l’imparzialità del giudizio che si andava a pronunciare. Anche se le sentenze di assoluzione completa erano rare se ne trova comunque traccia nei documenti, mente nel caso in cui l’imputato si fosse pentito dei reati commessi era condannato ad una penitenza oppure al carcere a vita che spesso era commutato. Chi invece rifiutava di riconoscere il proprio errore era consegnato al braccio secolare in quanto, ricordiamo, il delitto di eresia era considerato un crimine anche nel mondo laico. In quest’ultimo caso i giudici laici non potevano sindacare la sentenza emessa, ma avevano il compito di commisurare la pena secondo la gravità del reato, senza tenere conto di un’eventuale abiura fatta davanti a loro. Spesso la condanna prevedeva pene corporali, il carcere a vita e per i più ostinati o recidivi il rogo.

Concludendo, desidero ribadire come le pratiche inquisitoriali avessero sì come scopo la “caccia” all’eretico, ma soprattutto l’inquisitore doveva puntare a salvare l’anima del peccatore con ogni mezzo a sua disposizione e se ciò può sembrarci una contraddizione in realtà non lo è, dato che scopo della Chiesa è quello di salvare innanzitutto le anime.

Giulia Panzanelli

Per approfondire:

CARDINI FRANCOMONTESANO MARINALa lunga storia dell’Inquisizione. Luci e ombre della «leggenda nera», Città Nuova, Roma 2005.

CASERTA GIANNAMARIATAMMARO CIROIl Tribunale dell’Inquisizione nel medioevo : lineamenti del processo inquisitorio nei secoli XIII e XIV, Edizioni Penne e Papiri, Tuscania 2010.

MERLO GIOVANNI GRADOInquisitori e Inquisizione del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2008.

Share This Story, Choose Your Platform!

Written by : Redazione

Iscriviti alla nostra Newsletter

Leave A Comment